di Andrea Cafiero

 

     Abstract

Con il presente lavoro, si cercherà di capire se i conflitti locali siano relegati entro l’area geografica ove essi sorgono, oppure se siano in grado di valicarla, assumendo carattere nazionale e/o sovranazionale e diventando istanza di comune interesse per gruppi e attori sociali appartenenti ad altre aree geografiche. Occorre, dunque, effettuare un’analisi relativa alla localizzazione dei conflitti nonché ai gruppi e agli attori sociali coinvolti, al fine di cercare di capire se il conflitto sia in grado di affermarsi su una più vasta scala geografica e coinvolgere soggetti anche molto lontani rispetto a quelli direttamente coinvolti nel conflitto locale, per via dell’appartenenza all’area geografica in cui il conflitto stesso nasce e si sviluppa.

     1. Gli attori territoriali e la loro influenza in Geopolitica interna

E’ abbastanza noto che la Geopolitica non sia soltanto una questione di rapporti e relazioni tra Stati, probabilmente accade più spesso che riguardi la competizione tra diversi attori politici per il controllo di un medesimo territorio. Tale competizione, all’interno dei confini di uno stato, va a creare degli antagonismi fra gli stessi attori, parliamo in questo caso di Geopolitica interna. Verrebbe da pensare che essa abbia un’importanza limitata rispetto alla ben più nota Geopolitica esterna delle nazioni, ma non è così. Senz’altro i temi di Geopolitica esterna sono maggiormente seguiti dai media. Pur assumendo che la Geopolitica esterna sia d’importanza superiore per l’interesse mondiale, sicuramente gli antagonismi riconducibili alla Geopolitica interna sono quelli più frequenti. In questo lavoro ci saranno solo pochi esempi dei tanti che potrebbero essere riportati con riferimento all’Italia. Secondo parte degli studiosi di Geopolitica, essa dovrebbe occuparsi solo di conflitti territoriali di natura straordinaria. In questo senso si può almeno ridurre lo spettro degli argomenti trattabili a quelli che più di tutti hanno creato conflitto e dibattito politico negli ultimi decenni. Sicuramente la TAV è l’emblema di ciò di cui stiamo parlando ma ci sono altre infrastrutture d’interesse internazionale in cantiere, oltre alla progettazione di discariche e inceneritori che produce conflitti regolarmente. Certamente tali conflitti sono geopolitici, in quanto scatenati da attori politici presenti sul territorio. Ciò che li rende relativi alla Geopolitica interna è essere conflitti interni a uno stato (Bettoni, 2012). Chiaramente i casi di antagonismo possono essere molteplici, non riguardano solo infrastrutture di grande rilevanza come centrali nucleari e impianti energetici. La volontà degli attori politici si tramuta in azioni che influenzano la fruibilità dei territori stessi. Le scelte derivanti dalle condizioni di cui abbiamo parlato fino ad ora danno vita alla cosiddetta pianificazione territoriale. Essa racchiude tutte le azioni che lo Stato, gli Enti Locali e le Regioni, pongono in essere sul territorio di cui hanno la responsabilità, secondo il modello di sviluppo immaginato e in relazione al luogo. In questo processo rientrano tutte le scelte che riguardano infrastrutture e servizi d’interesse generale. Qualsiasi proposta politica volta a migliorare lo sviluppo economico del territorio rientra poi nella pianificazione territoriale, oltre a tutto ciò che è ricollegabile a infrastrutture materiali. Nonostante ci siano divisioni nel modo di intendere la pianificazione territoriale e la programmazione economica, entrambe contribuiscono ai medesimi obbiettivi, cioè prendere scelte infrastrutturali e decidere strategie di sviluppo sociale e economico. La scuola francese ha contribuito molto a una definizione di pianificazione territoriale, essa è intesa come forma di organizzazione che porta all’azione e alla pratica di disporre con ordine, attraverso lo spazio di un paese e in una visione prospettica, gli uomini e le loro attività, le attrezzature e i mezzi comunicazione che possono usare, tenendo conto dei vincoli naturali, umani, economici e strategici, ciò seguendo una definizione molto apprezzata del geografo Pierre Merlin. Tale ordine deve essere concepito in modo che le funzioni e le relazioni tra gli uomini si esercitino nel modo più comodo, economico e armonioso possibile (Merlin, 2002). Sempre in Francia, occupandosi della relazione tra turismo e Geopolitica, è Lacoste a definire la pianificazione territoriale come azione volontaria e ponderata, solitamente da parte di una comunità e soprattutto dei suoi leader (o personaggi influenti), volta a distribuire al meglio le nuove attività economiche e culturali sul proprio territorio (Lacoste, 2003). Lacoste pone l’importanza sugli attori politici del territorio, con questa definizione, più di quanto avesse fatto Merlin. E’ difficile valutare il peso dell’influenza dei diversi attori politici, per tale motivo troppo spesso i geografi ne sminuiscono l’importanza. Anche l’azione degli attori territoriali è di difficile valutazione oggettiva, ciò porta talvolta ad un’esclusione dall’analisi dei geografi di questi fattori. Un’altra definizione viene dal francese Girardon, accademico e uomo politico che ha svolto molti incarichi durante la sua vita, egli afferma che la pianificazione territoriale è il modo in cui il potere organizza il suo territorio in una data società (Girardon, 2006). La natura soggettiva della visione di sviluppo del territorio ha fatto si che, alle scelte del potere e degli organi amministrativi, si contrapponga quasi sempre una visione alternativa, la conseguenza è il sorgere di conflitti interni. Negli ultimi anni sono sempre di più i movimenti di opposizione che criticano la realizzazione e l’installazione di impianti e infrastrutture presentate, da chi ne è favorevole, come strategiche e irrinunciabili, e percepite, da parte delle comunità che abitano i territori coinvolti, come invasive, dannose, costose o inutili. Ci sono diversi progetti infrastrutturali sottoposti a contestazione ma spesso si parla di inceneritori, discariche, centrali nucleari, infrastrutture trasportistiche e tutto ciò che possa essere seria fonte d’inquinamento di vario tipo, il fenomeno dei movimenti di protesta investe non solo diverse comunità del territorio italiano ma anche altri paesi europei, asiatici e sud americani soprattutto. Le opposizioni che nascono al fine di contrastare tali scelte di pianificazione territoriale, quando assumono una dimensione di continuatività e un’organizzazione strutturata, vengono generalmente classificate come movimenti, i quali possono essere di diversa natura come ambientalisti, sociali, politici e altro. Un movimento può essere definito tale sulla base di quattro parametri generali. Esso:
• è una rete di relazioni informali all’interno della quale vengono reperite le risorse necessarie all’azione collettiva;
• implica interpretazioni e visioni comuni della realtà, solitamente crea solidarietà attiva tra i componenti;
• necessita che esista un conflitto e dunque che si possa individuare un avversario e una contesa con esso;
• richiede il ricorso ad azioni di protesta quale strumento privilegiato di pressione, al fine di ottenere quanto preteso (Fedi e Mannarini, 2008).
C’è da dire infine che i rapporti intercorrenti tra i diversi soggetti interessati alle decisioni politiche sono stabilmente e fortemente asimmetrici, questo perché gli organi istituzionali detengono il diritto di esercitare il proprio potere, conferito dalla legge, sui cittadini, per le decisioni pubbliche non c’è quindi necessità del consenso di tutte le parti, ciò che è necessario è che vengano rispettate le norme procedurali e sostantive (Fontana e Sacco, 2011).

     2. NO TAV, NO TAP, NO MUOS, NO EXPO: opposizione alle grandi opere e motivi delle proteste

Probabilmente l’opposizione alla TAV è il simbolo delle mobilitazioni contro le grandi infrastrutture, in Italia ma anche in Europa, avendo ricevuto grande visibilità e ampio spazio di discussione. La ferrovia Torino Lione è un’infrastruttura ideata negli anni ‘90 e in fase di progettazione e realizzazione fin dall’inizio del ventunesimo secolo, consiste in una linea ferroviaria internazionale di 235 kilometri destinata al trasporto di merci e persone fra Torino e Lione. Affiancherebbe, con caratteristiche diverse e più moderne, la linea già esistente che oltrepassa il traforo ferroviario del Frejus. Gran parte degli abitanti delle zone interessate si sono mobilitati in comitati e associazioni e, appoggiati da centri sociali, ambientalisti e organizzazioni politiche più o meno strutturate, hanno presentato la propria azione di protesta come difesa dei beni comuni e di principi universali. Non si limitano a opporsi alla realizzazione dell’infrastruttura, propongono alternative basate su un diverso modello di sviluppo, cercano di creare forme di partecipazione politica diretta e dal basso. Indicati talvolta con l’accezione di localisti, questi agglomerati di soggettività creano al contrario movimenti, diventano reti nazionali o sovranazionali, alternano forme di protesta al di fuori della legalità all’utilizzo di canali politici istituzionali, diventando così attori politici con cui i governi locali, nazionali e sovranazionali non possono esimersi dall’avere rapporti e interlocuzioni (Della Porta e Piazza, 2008). La partecipazione delle istituzioni locali ai lavori e agli appuntamenti indetti da questi movimenti crea un processo di legittimazione reciproca: la presenza delle autorità locali legittima la protesta ascoltandone la voce e riportandola nell’alveo della legalità istituzionale, inoltre si crea un rapporto diretto fra rappresentati e rappresentanti, riportando quest’ultimi in contatto con i problemi e le istanze dei cittadini. Questa nuova forma di rappresentanza, che alcuni chiamano democrazia dal basso, farebbe in modo che la partecipazione attiva superi i limiti della democrazia rappresentativa e vada al di là di politiche tendenti al marketing e eccessivamente subordinate alle necessità incombenti del capitalismo finanziario (Gallino, 2011).
Dal 2011 è sorta l’intenzione di approvare il progetto di costruzione di un imponente gasdotto di 4000 kilometri, l’impianto servirà al trasporto di gas dall’Azerbaijan all’Europa, in particolare approdando in Puglia, Provincia di Lecce. Contro questo progetto si è costituito il movimento NO TAP. Anni di protesta e di contenzioso giuridico non hanno impedito che il progetto sia stato definitivamente approvato e avviato nel 2017. Ciò non ha fermato l’espansione del movimento che ha sviluppato diverse forme di conflitto, più o meno soggette a disciplina giuridica. Sono vari decenni che i movimenti ecologisti contribuiscono a fornire risonanza al tema del pericolo industriale e dell’inquinamento, ciò però rischia di trasformare l’incertezza del rischio in certezza del danno e di trasformare la normale comprensione limitata del futuro in attesa di una conseguenza tragica (Punzi, 2018). Il gasdotto garantirebbe l’importazione di 8 miliardi di metri cubi di gas naturale ogni anno. Sarebbe certamente importante al fine di accrescere la sicurezza energetica italiana, la quantità di gas garantita sarebbe ben superiore al 10% dei consumi annuali italiani, ciò sarebbe utile anche tenendo conto dell’instabilità politica di due aree importanti da cui proviene l’approvigionamento energetico, la direttrice nord africana e quella russo ucraina (Rossetto, 2014).
Il movimento di opposizione al MUOS è nato a cavallo tra il 2008 e il 2009 a Niscemi, in Sicilia. L’obiettivo principale era inizialmente di impedire la costruzione del MUOS, un sistema di comunicazione satellitare militare ad alta frequenza e banda stretta, gestito direttamente dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, costruito poi all’interno di una base USA vicina a Niscemi. Successivamente la protesta ha cercato di ostacolarne il funzionamento. I residenti locali iniziarono la protesta perché preoccupati per l’influenza delle onde radio sulla salute pubblica e sull’ambiente, successivamente però altri contestatori sono arrivati in supporto agli abitanti della zona e le rivendicazioni sono state estese oltre la semplice preoccupazione per l’inquinamento elettromagnetico: da una protesta di tipo NIMBY (Not In My Back Yard, non nel mio giardino) si è arrivati a una protesta di tipo NOPE (Not On the Planet Earth, non sul pianeta Terra), di stampo politico più marcato. Grazie a ciò la mobilitazione si è allargata geograficamente sostenendo uno scale shift, o cambiamento di scala in italiano (Tarrow e McAdam, 2005). Miriadi di attivisti provenienti da tutta Italia e oltre si sono ritrovati in manifestazioni e mobilitazioni nazionali a Niscemi, dando vita a campeggi di lotta e azioni dirette e facendo così del movimento NO MUOS un emblema della resistenza territoriale, oltre che a decisioni percepite come ingiuste e ritenute antidemocratiche, contro la militarizzazione del territorio e la guerra in generale (Della Porta e Piazza, 2016).
L’Expo 2015 è stata l’esposizione universale svoltasi a Milano dal 1º Maggio al 31 Ottobre 2015. La tematica selezionata per l’Expo 2015 fu “Nutrire il pianeta, energia per la vita” includendo tutto ciò che riguarda l’alimentazione, l’educazione alimentare, la fame nel mondo, gli Organismi Geneticamente Modificati e così via. La Rete NO EXPO è nata dall’unione di una grandissima varietà di organizzazioni politiche, sociali, ecologiche, ecc. Riassumere tutta la galassia delle componenti sarebbe difficile e poco utile, comunque non fu composta solo da movimenti di base e da organizzazioni portatrici di varie istanze incentrate sulla generica opposizione ai grandi eventi, ma anche e soprattutto da realtà individuali e collettive aggregate, messe insieme, dalla critica comune a debito, cemento e precarietà, i veri valori fondanti della manifestazione secondo gli oppositori. Da ciò sono nate una moltitudine di elaborazioni teoriche e di forme di protesta che hanno riguardato il movimento. Anche piccole realtà locali e gruppi stranieri hanno aderito alla Rete NO EXPO. In una tale situazione non si può definire una composizione certa del movimento, in quanto le dinamiche stesse al suo interno sono fluide e mutevoli, quel che si può fare è, metaforicamente, scattare una fotografia temporanea che rappresenti il movimento in un dato momento. Il “Comitato No Expo” è nato nel 2007, anno in cui Milano fu candidata a ospitare l’edizione 2015. Negli 8 anni di mobilitazione successiva la visibilità non è sempre stata ai massimi livelli. Il “No Expo Festival” del 2010, il “No Expo Climate Camp” del 2012 e le due grandi manifestazioni dell’ottobre 2014 e del Primo Maggio 2015, in occasione dell’EuroMayDay e dell’inaugurazione dell’evento, sono state senz’altro le tappe più importanti della protesta. Altre contestazioni si sono avute con le campagne e le manifestazioni di studenti, precari, comunità LGBT e altri eventi che hanno visto una forte coesione contro l’esposizione. Negli anni della sua esistenza poi, la Rete NO EXPO ha appoggiato attivamente altri movimenti come quello NO TAV e ha messo in atto forme di protesta anche su altri temi, ad esempio in opposizione all’acquisto degli aerei da combattimento F-35 e alle politiche della BCE e di altri organismi internazionali (Bertuzzi e Regio, 2015).

3. Sindrome di NIMBY, PIMBY e conflitti LULU: sviluppo e conservazione del territorio

Come brevemente accennato in precedenza, con NIMBY (Not In My Back Yard, non nel mio cortile) si fa riferimento alla protesta da parte di membri di una comunità locale, al fine di impedire la collocazione di opere infrastrutturali di vario tipo sul proprio territorio, gli esempi più ricorrenti sono grandi vie di comunicazione, cave, impianti industriali, termovalorizzatori, discariche, eccetera, gli stessi però non protesterebbero se l’opera fosse realizzata su un altro territorio. L’opposto a tale fenomeno viene indicato con l’acronimo PIMBY (Please In My Back Yard, perfavore nel mio cortile) e si verifica quando una comunità accetta felicemente un’infrastruttura sul suo territorio in nome dell’interesse collettivo, solitamente questa seconda eventualità è più rara. Quando si parla di NIMBY usualmente si parla di una sindrome, quindi in accezione totalmente negativa, al contrario, se si parla di PIMBY, solitamente è inteso quale ottimo modo di pensare, altruista e utile all’interesse pubblico, fondamentalmente nobile. Il fatto di individuare la sindrome di NIMBY, a torto o a ragione, in modo pretestuoso o onesto, in un attore territoriale quale potrebbe essere un movimento di protesta, può far si che vengano meno le condizioni stesse che creano il consenso: la fiducia, il rispetto, la non violenza e la cooperazione. Il consenso infatti prevederebbe, come minimo, che le parti vengano poste su uno stesso piano etico, se si inizia un processo decisionale partecipativo di qualsiasi tipo (Cioni, 2006). Come abbiamo visto in precedenza, sempre più spesso i conflitti territoriali e ambientali raggiungono un livello di complessità che va oltre la mera difesa del territorio in oggetto, si innescano processi che creano aggregazioni ampie, non più riassumibili nell’acronimo NIMBY, che diventa così parziale e non sufficiente. Al fine di eliminare il pregiudizio di negatività intrinseco nell’acronimo, gli studiosi Freudenberg e Pastor ne propongono la sostituzione con uno più moderato dal punto di vista della valutazione dei fenomeni, cioè LULU, in inglese Locally Unwanted Land Uses, in italiano uso della terra (o del territorio) localmente sgradito (Freudenberg e Pastor, 1992). Ripartendo da questa nuova concezione, altri due studiosi, Fedi e Mannarini, cercano di individuare caratteri ricorrenti nei conflitti LULU:
• ci deve essere la percezione dei costi e dei rischi legati alla costruzione dell’opera, concentrati su un territorio circoscritto e ristretto, ciò anche nel caso in cui i benefici dell’opera siano superiori, destinati a un numero maggiore di persone anche al di fuori del territorio su cui sorge l’infrastruttura, cosa che però diminuisce anche la percezione del beneficio;

• si manifesta la concentrazione dei rischi che facilita l’aggregazione dei residenti locali nella protesta, ciò implica un territorio comune tra i soggetti che condividono costi e rischi dell’opera;

• la questione ambientale crea un aggregazione comune condivisa, dalla quale poi cercare visioni collettive della realtà che suggellano l’identità del movimento (Fedi e Mannarini, 2008).

Una breve parentesi finale è dedicata ai fallimenti del mercato e alla sua non sufficienza quale perseguitore dell’ottimo sociale, relativamente a benessere e valutazione delle grandi opere. La presenza di interazioni sociali molto rilevanti e l’inefficienza del sistema dei prezzi, limitando l’azione dei due Teoremi dell’Economia del Benessere che comunque non si preoccupano di uguaglianza e equa distribuzione ma solo di efficienza paretiana, sono due delle maggiori cause dei fallimenti del mercato (Keynes, 1936). Partendo dai fallimenti della “mano invisibile”, c’è bisogno di passare dal concetto di crescita economica a quello di sviluppo sostenibile. Condizioni economiche e qualità di vita sono influenzate positivamente dalla tutela dell’ambiente e dell’equità inter e intragenerazionale, da qui sorge la necessità di comprendere il campo delle scelte sociali e individuare una base teorica in cui il processo decisionale di allocazione e di distribuzione delle risorse sia incentrato in una prospettiva di miglioramento generale della qualità della vita. Il problema alla base di ciò è la formalizzazione stessa del concetto di qualità della vita e, conseguentemente, quello della definizione di una funzione di benessere sociale o almeno di un indicatore condiviso di benessere sociale come parametro utile alla valutazione di progetti pubblici alternativi (Casini, 2005).

     Conclusioni

In questo lavoro si è osservato come i conflitti locali portino, spesso, alla nascita di movimenti e moti di protesta. Certamente buona parte dei conflitti rimangono relegati all’area geografica ove essi sorgono, come nel caso dei conflitti NIMBY o di quelli LULU, che possono riguardare l’opposizione a progetti ritenuti pericolosi per la salute e/o la qualità della vita della comunità che abita l’area geografica stessa. Si è però osservato come alcuni conflitti locali possano, senz’altro, assumere carattere nazionale o sovranazionale, soprattutto quando essi possano essere inquadrati in temi di maggiore interesse generale, come quello dello sviluppo sostenibile nel caso della TAV, dell’inquinamento nel caso della TAP e del MUOS e della critica politico economica come nel caso dell’EXPO. In questi casi, l’interesse per il tema politico e/o sociale e/o ambientale fa si che i confini del conflitto perdano rispondenza rispetto al confine prettamente geografico, travalicandolo, caratterizzandosi su una scala geografica più vasta di quella iniziale e assumendo carattere nazionale o, in alcuni casi, anche sovranazionale.

 

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