Giuseppe CAMPIONE

 

 

Così lo Scill’e cariddi di D’Arrigo intercetta il mito oceanico della storia, il fantastico potere dell’intreccio di motivi arcaici del mito e della guerra, per dare vita violenta e lirica agli elementi del tempo, del paesaggio, del mare e della terra, delle rocce risonanti di echi, delle orche portatrici di morte e di slancio vitale (George Steiner).

A Messina, “claves insulae”, come diceva Edrisi, non solo, ma anche “nobilis Siciliae caput”, e, soprattutto, “emporio delle genti”, arrivavano le navi dagli estremi lidi della terra. Per questo gli abitanti ”quasi non ponnu viveri senza mercantii et esercitii marittimi”, essendo la città, appunto, “situata in loco sterile di terreno“(Peri, 1978).

Le fortune del sito, della posizione e delle professionalità marittimo-commerciali saranno causa ed effetto di cospicui privilegi “concessi per rimunerazione di servigi prestati dalli Serenissimi reggi”. E forse i molti privilegi “con i quali si è gloriata la città di Messina di essere arricchita (addirittura ne furono inventati altri “falsi e irregolari”, al punto che “nella ‘caparbietà di difendere tali ‘imaginarie chimere’, si precipitarono, “all’ultimo scopo della loro meritata rouina”, scrisse nel 1264 il Masbel (LaTorre, 2000), furono sempre causa che la medesima si rendesse nauseosa…alle altre città del Regno”. La rivolta antispagnola vide la città assolutamente sola, proprio al termine di una lunga controversia con Palermo, sul privilegio “di estrarre la seta solo da Messina”. Temeraria ambizione quella, si chiede, ancora con il Masbel, La Torre (ib.), o un “voler vivere in libertà, quasi in forma repubblicana”? Forse Messina, analogamente ad altre repubbliche cittadine, ritenuta <inevitabilmente sediziosa>, vede la sconfitta delle sue ambizioni municipalistiche e si arrende a poteri autocratici, perde la voglia di comunicazione dei cittadini, … <la civile conversazione>.

Ma paesaggio e memorie sono tutte lì.

“… sotto il limpidissimo cielo lavato dalla pioggia, la nuova città poteva apparire anche più nuova, con i suoi rettifili lucidi e le sue case tutte, o quasi tutte, bianche e le sue piazze inesorabilmente quadrate o rettangolari, tranne una che, con la croce di due strade e i prospetti di quattro palazzine, faceva un ottagono aperto da quattro lati. I faggi, le mimose e le acacie, i platani e le palme, ancora brillanti di pioggia […] Questa nitida freschezza, dominata nello sfondo, dall’alta montagna grigio-viola aggiungeva novità e splendore alla piccola città spiegata ad anfiteatro e posseduta dal mare”, così, una decina di anni dopo il terremoto, la immagina Guido Ghersi. E, sul filo dell’elegia della memoria, continua: “Dieci anni prima lì non c’era che un mondo livido e informe, tra cui vagavano le ombre degli scampati, e il resto della Terra leggeva, atterrito, il numero pauroso delle vittime, contemplava la straordinaria visione di una città crollata in pochi secondi, come i castelli che i ragazzi fanno con le carte”.

La città del dopo terremoto, questa città già negli anni ‘20 appare diversa e, nella descrizione del Ghersi (1983), sembra essersi lasciata alle spalle momenti di dolore infinito. Certo, una città ha la sua forma, dice Baudelare, che muta più in fretta del cuore degli uomini(…).

Gli anni ‘20 sono già lontani dal momento dionisiaco della “lieta baraonda da fiera” che caratterizzava la Messina dopo-terremoto (Longo, 1933). Una città, “un po’ cantiere, un po’ bivacco, un po’ mercato”, abitata anche da “un miscuglio di gente forestiera assillata dal desiderio di far fortuna”, intenta alle “più ingegnose speculazioni”. Città di “sventagliante fantasmagoria” nelle cui sale da pranzo e da convegno arrangiate si affollavano “funzionari, costruttori, legali, giornalisti, rappresentanti dei comitati di soccorso nazionali e stranieri, mondane, tutta una folla varia e strana, mutevole e gioconda, fra la quale capitava, spesso in raccolto atteggiamento, qualche gruppo di persone a lutto”. Tacevano quasi del tutto i gioiosi cantieri cantati dal futurista Jannelli su “Lacerba”, che esprimevano la prometeica volontà della ricostruzione, e la “lieta baraonda della resurrezione” si spegneva man mano nella desolazione dell’inerzia. L’atmosfera cittadina tendeva a tingersi di un grigio indistinto: semideserte le aule universitarie così difficoltosamente riaperte, inattive o quasi le associazioni, sopiti i fermenti di vita culturale che pure si erano avvertiti e di cui le iniziative futuriste erano le manifestazioni più vistose. “Il passato rosicchia l’avvenire e rosicchia noi ad ogni istante che trascorre. Le strade, le piazze della città che abbiamo scelto o dalla quale siamo stati scelti, sono state costellate dai rottami di tutto ciò che cominciavamo ad essere, di tutto ciò che saremmo potuti divenire, di tutto ciò che siamo diventati. Le città sono un tessuto di ripetizioni come la vita”, leggiamo in Lea Vergine (1985), e le strade che percorriamo ci inviano “messaggi ermetici” che costituiscono un “linguaggio latente delle <cose mute>.

Eppure si erano espresse nell’immediato prepotentemente forti volontà di ripresa. Certo, come dappertutto dopo simili eventi.

La teoria delle catastrofi[1], ci dice che questi non si caratterizzano sul piano della rottura. Non siamo in presenza, che solo apparentemente, di una teoria del mutamento e la frattura e le discontinuità appaiono essenzialmente come fatti esterni che vengono a turbare il ritmo normale dell’evoluzione. E’ in fondo la lunga durata di Braudel (1966): “al di là degli incidenti, delle peripezie che ne hanno colorato e segnato il destino, nella loro longevità, o meglio nelle loro permanenze, nelle loro strutture, nei loro schemi essenziali”, può ricomporsi una cultura, una ‘civiltà’, che non è “né una data economia, né una data società, ma quello che, attraverso una serie di economie, attraverso una serie di società, continua la propria esistenza, lasciandosi appena flettere poco a poco”. Un modo di percepire i valori del sito: la tradizione si rafforza e sembra proiettarsi in avanti, sembra intramarsi in un futuro che già comincia a prendere forma.

Questo, del resto, anche se in modi diversi, era accaduto dopo il 1783. Superata la prima fase, saranno meno presenti i sensi di colpa, quel sentirsi colpevoli di un qualche peccato che aveva scatenato la punizione immane (Placanica, 1988).

Ed è come se si individuasse nel terremoto un’epoca e nel dopo-terremoto un ritorno, anche frutto della attività mitopoietica dell’immaginario sociale.

Il rifugiarsi nel mito di un passato che difficilmente potrà tornare sembra quasi un alibi per rifiutare le afflizioni del quotidiano, con la sua carica irrinunciabile di presente, che sfocierà tutt’al più nelle piccole o grandi contese per la ricostituzione della roba o nelle recriminazioni di un localismo municipalista. Questo poi è reso inutilmente verboso ed effimero dal ritorno del professionismo della politica e dai nuovi cortigiani, buoni per tutte le stagioni, così come li aveva descritti nel suo “La fine di un regno” il De Cesare (1969). Con un’invenzione della tradizione talvolta punto di arrivo di un bisogno reale, talaltra operazione magico-rituale, giocata sull’affermazione di identità che alla fine restano soltanto iconografiche, prive di orizzonti e di prospettive. “Quando ho scoperto i miei villaggi con le loro montagne ed i villaggi nei miei primi giochi d’infanzia ed ho capito che certe storie più tardi mi avrebbero ispirato per tutta la vita, mi sono chiesto come avrei potuto dimenticarle, come avrei potuto giammai distaccarmi?”(Maalouf, 1998). Così un famoso scrittore libanese pone il problema del suo rapporto con la terra d’origine e con le identità che, ci spiega ancora, se ridotte a una sola appartenenza possono rivelare tutta la loro intensità ‘meurtrière’, perché intrappolano gli individui in un labirinto senza fili d’Arianna, che sembra condurre ad una chiusura pericolosamente contemplativa, ad un immobilismo rassegnato, come in quel grande poster di Le nouvelle observateur[2]che ci fa vedere una moltitudine di gente seduta su un molo, ad osservare attraverso una porta-finestra lo “spectacle grandiose du coucher de soleil sur la mer” .

In una logica similmente mitopoietica, con identiche sfaccettature ‘meurtrières’, si confonderanno e le prodigiose memorie della centralità marittima e un insopprimibile articolarsi di mediocri abbandoni alle urgenze. In verità, queste stesse memorie sembreranno racchiudersi in se stesse, in un’intimità crepuscolare fatta di rimpianti e nostalgie, incapace di guardare al di là di un vissuto che si è come rappreso: certo, i faggi, le mimose, le acacie, i platani, le palme del Ghersi; il permanere ancora della “piccola città spiegata ad anfiteatro e posseduta dal mare” (Ghersi, ib.). Certo, tutto questo, ma anche il cominciare a manifestarsi di una storia che vorrebbe protendersi verso il Mediterraneo, ma non riesce a ‘possederlo’ attraverso nessuna delle modalità precedenti, e che riduce di fatto quello che era il suo spazio-movimento ai pochi chilometri dello Stretto. E non ci saranno nemmeno gli eroi dell’altro Ghersi (Luigi, il pittore[3]), gli eroi ricchi della divina ebrezza del dovere della fondazione, quegli eroi che, immortalati nel tumulto della battaglia, orneranno di sé le nuovissime aule della Facoltà di Scienze, né ci sarà quel ‘doloroso remare’ che spacca, ad ogni colpo, il livido mare dello Stretto, tra orche, arpie e sirene, quasi a commento dell’Horcynus di Stefano D’Arrigo, (ib.) con “lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato dentro i petti” mentre…” la lancia saliva verso lo Scilla e Cariddi tra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lacrime fatto e disfatto ad ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare”. Da questo “grumo di sentimenti e di irrazionalità”, si erano tenuti lontani gli altri, “gli scienziati alle prese con i problemi delle cause e degli effetti”, convinti, come il Baratta, che “il riparo alle future catastrofi doveva trovarsi in una razionale edilizia per la quale non fossero più possibili le tragiche e colossali rovine accadute nel 1783”. Così, dopo il terremoto del 1908 ci saranno, certo, dirompenti ritorni di vitalità ma anche, meno emotivamente, come nel 1783, tentativi di porre mano urgente alla revisione delle normative, per un necessario modo di convivere con il rischio. E verranno fuori le norme, le ‘savie’ leggi dettate dall’esperienza, che, appunto, avrebbero dovuto fare in modo che questi avvenimenti non dovessero avere, comunque, esiti così disastrosi.

Nella ricchissima antologia di Mercadante (1962, 2003), prefatta dal più illustre dei rettori dell’Ateneo, Salvatore Pugliatti, un unicum storico filosofico e letterario, pubblicata per i cinquant’anni dal terremoto, che riprende tutti gli articoli di scrittori, saggisti, scienziati e inviati speciali, scritti nei giorni e nei mesi successivi all’evento, è possibile leggere si registrano “a un tempo l’urlo disperato della vittima e il gesto soccorrevole del benefattore, l’emozione dei lontani e il consiglio dei vicini, il compianto del letterato e il giudizio pacato dell’uomo di scienza, ma soprattutto e con maggior foga il giuoco, l’intreccio, l’urto delle passioni e delle parti politiche”, e si colgono anche affermazioni che derivano dai sensi di colpa per la negligenza e per la distrazione: l’opinione cioè secondo cui la catastrofe è stata in qualche modo aiutata da colpevole ignavia, perché le norme, e anche le esperienze precedenti, davano indicazioni precise su come ricostruire Messina. “Messina non è morta di morte naturale ma per suicidio”, scriverà, ad esempio, il Borgese (1908).

E le norme, dettate dalla saggezza e dagli avvertimenti della natura, per premunirsi dai rischi futuri, non si faranno attendere e imporranno limiti alla altitudine delle nuove fabbriche e l’allargamento delle vie e delle contrade.

“Gode l’animo”, si legge in una guida curata dal comune nel 1914, “pensando che l’evoluta e cosciente epoca presente, con le savie leggi sulle norme costruttive obbligatorie, abbia posto per sempre fine o per lo meno abbia di molto allontanato il pericolo di ulteriori stragi”[4].

E queste savie leggi riprendevano concetti generalmente diffusi: “case basse, strade larghe” e, in sostanza, compendiavano i principi più elementari della tecnica delle costruzioni antisismiche.

L’esperienza precedente, scriveva il Baratta (1909), aveva dimostrato che i messinesi, dopo il 1873, si erano accinti alla ricostruzione della città “con case basse … ma con il volgere degli anni, essendosi affievoliti nella mente e nell’animo la lugubre impressione della morte ed il ricordo delle passate sciagure, voti e propositi andarono dimenticati: Messina risorse grandiosamente bella e per forza di cose e per tenacia degli uomini si ingrandì, seco portando per altro i germi del suo fatale destino”. Ma non solo case basse e strade larghe: l’attenzione doveva rivolgersi ad un tempo alle modalità di fondazione e di costruzione, alla codificazione delle tipologie ammissibili per strutture, manufatti e materiali etc., alla solidarizzazione degli elementi strutturali, alla natura dei terreni. “Il monito severo della dolorosa storia sismica locale di oltre un millennio”, aveva scritto nel 1786 lo Spallanzani, era stato disatteso dai “nostri antenati”, con “gravissimo torto”. Le “verità sacrosante che gli scienziati italiani dicono da più di cent’anni”, ribadiva adesso con tono duro un altro sismologo, il padre Alfani (1909), devono essere ascoltate, dal momento che “tutto si è detto e niente si è fatto … Se si fossero attuati i progetti dei Borboni dopo il terremoto del 1783, o della commissione ministeriale dopo il terremoto di Ischia del 1883, oggi si piangerebbero appena pochi morti … Tutte le generazioni precedenti sono colpevoli” (Ojetti, 1909). Un altro sismologo ancora, il Mercalli (1909), dopo aver anche lui accennato al fatto che, dopo il disastro del 1783, si erano in Calabria costruite case in modo conforme ai regolamenti e dopo aver convenuto che a poco a poco, quei regolamenti erano stati dimenticati, invitava ad adottare norme e regolamenti rigorosi, dal momento che se la ”sismologia non sa dire quando”, sa però “dire dove avverranno i terremoti rovinosi e sa pure graduare la sismicità delle varie provincie”.

E sarà l’insieme di riflessioni di questi e di molti altri naturalisti e sismologi, sorpresi che le case, dopo tanti avvertimenti e regolamenti, si erano ricostruite “negli stessi luoghi pericolosi, con gli stessi metodi vieti ed errati, cogli stessi materiali insufficienti …” che otterranno il pronto definirsi di una normativa adeguata.

Forse nessuna città come Messina corrisponde alla necessità di collegare la sua immagine “reale” con quella “indiziaria”, onirica, dipendente dalla categoria dell’immaginario.

L'”habitat” non appare rappresentabile solo come “un fenomeno fisico, una estensione materiale di case costruite”, ma ha urgenza di ritornare all’esperienza vissuta, di essere tracciato secondo le linee vitali del suo “corpo” collettivo (comunitario e sociale). Ridisegnare ambiente e monumenti, piazze e luoghi simbolici attraverso la grande cartografia sezionata che si rifa al corpo mobile della città, in particolare la gente e le sue attività, elementi che sono nella storia di una struttura urbana altrettanto importanti che gli elementi fisici “fissi”.

Grazie a questa tecnica del “sapere indiziario”, coadiuvata dalla ricerca storica, ci si inoltra per una indagine progressiva che abbia al suo centro i complessi fenomeni del costruire e dell’abitare e che porti a “riordinare i materiali della cultura dello spazio sull’asse della diacronia, come attraverso il tempo: passato, presente, futuro”.

Ed è proprio riordinando i “materiali” vivi della cultura messinese, ripescando a partire dal passato che troviamo nelle pagine ingiallite del libro di Pietro Longo (ib.) una cronaca puntuale e significativa che sembra ricongiungere l’immagine “indiziaria” della città con quella “reale”.

Si parte dal grande evento tragico, il terremoto del 1908, soglia della città che non ne azzera le memorie ma indubbiamente segna un taglio deciso, spietato nella struttura urbana e nella vita economica e ancor più nella composizione demografica e sociale. Sicuramente, infatti al concetto di catastrofe si accompagnano una serie di fatti emotivi e di sentimenti che incidono sui fatti istituzionali e politici, elementi emotivi base che nell’immediato sembrano produrre una forte stasi, una frattura intensa, ma che nell’analisi degli avvenimenti di lunga durata si confermano come spinta in avanti e tendenza alla ricomposizione di una cultura, di una “civiltà”, che non è “né una data economia, né una data società, ma quello che, attraverso una serie di società, continua la propria esistenza, lasciandosi appena flettere a poco a poco” (Braudel, ib.).

La catastrofe, quindi, porta indubbiamente con sé una serie di dinamiche immobilizzanti ma in definitiva afferma la composizione di quegli “schemi essenziali” che rappresenteranno una sorta di “laboratorio dal vero per valutare sperimentalmente […] le capacità di recupero di vasti sistemi sociali”.

Sebbene il terremoto rappresenti un evento calamitoso di larga portata “lacerante” del tessuto urbano messinese, ugualmente si prospetta e in tempi quasi immediati, nonostante l’articolato mondo di sensazioni e l’alternarsi di oltranze e cautele, la ricostruzione.

Ed è su questa volontà di andare avanti che si può rileggere il susseguirsi di eventi del dopo-tragedia.

È forse questa una delle tracce da seguire nella decodificazione dei documenti, dei libri, delle attività sociali, delle scelte politiche, che si svilupparono negli anni del post-terremoto.

Sicuramente la lingua di terra occupata fin dall’XI secolo da un popolo “sfrondato”, ma non “abbattuto” dalle periodiche distruzioni, segnata da “un cieco destino”, ha acquisito nel corso dei tempi una percezione della significanza del sito estremamente caratterizzata.

Nelle produzioni letterarie di quegli anni si stabilì senza dubbio una forma di appassionato legame con quanto era successo, una necessità quasi fisiologica di sentirsi “figli del terremoto”, termine che riappare in quella delicata e significativa elegia della memoria che è il libro di Giuseppe Raneri (1985), oppure nel linguaggio ardito e innovativo di un maestro del futurismo non solo locale come Jannelli. Si tentò di “storicizzare” il disastro in termini narrativi e drammatico-epistolari, e ci si impegnò con ogni mezzo e con tutta la forza sotterranea della creatività nella volontà di rinascere.

Si sviluppa fortemente il desiderio degli intellettuali;. il Miligi (1989) ne ricorda molti, oltre i già citati Ghersi, Jannelli, Raneri: La Pira, Quasimodo, Pugliatti, Cardile, Rino, Vann’Antó, Nicastro, Natoli, Misefari, Calabrò, Mancuso, Saitta e altri ancora) di continuare ad esistere di là dalla distruzione dei luoghi che rappresentavano la loro cultura le loro radici e la loro storia, il desiderio di affermare la vita.

Ecco quindi che si ritesse, seppure su un territorio sfilacciato e stracco, la volontà della rinascita, che viene interpretata da alcuni proprio con le caratteristiche “misteriche” della resurrezione.

Da questo nascerà il Messina città rediviva di Longo (ib.), volume che inizialmente esce in fascicoli, venduto in abbonamento dall’ottobre del 1931 al gennaio del 1933 : volume che nasce proprio da questo forte intento di intervenire sulla città, non solo per narrare i meccanismi razionali e consequenziali della ripresa, ma anche per affermare la voglia ardimentosa dei messinesi di ‘rinascere’ e di ‘rinascere’ nel medesimo, difficile luogo geografico.

Messina era stata letta, dice Alberto Samonà (1972), come un teatro e il suo doppio: la città, dal mare-platea, come insieme di quinte, un palcoscenico che dalla palazzata-spettacolo si innalza sulle colline, con l’Etna come fondale; invece, tornata anfiteatro, con, sulla scena, il mare tagliato dalla falce, come nelle crocifissioni di Antonello, e, in fondo, l’ondulato disegno degli ultimi contrafforti dell’Aspromonte. Poi solo memoria e lamento. La cesura sarà più evidente dopo il terremoto del 1908, e non sarà solo virtuale.

   Nella logica interna del suo impianto gli avvenimenti, le epidemie, i disastri sono state come ferite profonde del tessuto sociale e delle strutture urbane, che si rimarginano con modalità e tempi diversi: scansioni temporali entro cui i vari elementi della struttura si ricombineranno alla ricerca di un disegno. E perciò è come se sempre si fosse guardato al tempo dello spazio della lunga durata e gli avvenimenti, tra storia ed eventi.

Certamente il riferirsi alle linee precedenti, salvo che le necessarie espansioni e per gli aggiustamenti dei percorsi e delle strutture, dovuti al rigore della regolamentazione, avrebbe potuto avere il significato di non interrompere quel flusso di memoria al quale comunque si faceva riferimento nella cospicua ritualità che accompagnava i voti della rinascita. Così come avrebbero potuto sottolineare la volontà di rifarsi in modo compiuto alle precedenti funzioni urbane. “Il primo pensiero” del Borzì (1911), come dalle dichiarazioni e dalla relazione al piano, avrebbe dovuto essere quello di conservare l’impianto nel suo schema generale, quello del mantenimento della vecchia città, conservandone, per quanto possibile, l’impronta generale, ed anche il ripristino della forma originaria; invece, sarà soltanto la qualità del luogo ad esaurire tutti i termini della raffigurazione del paesaggio urbano, proprio perché si rinunzia ad altri riferimenti, alle tracce raffigurabili e misurabili dell’attività degli uomini, che pure, per molti aspetti, potevano essere recuperate. E senza questo sforzo di nuova comprensione del senso della città, l’impianto sarà per lo più imposto dalle necessità e dalle urgenze. Così il rinascente orgoglio municipale e la forte, commovente volontà dei superstiti sembreranno esaurirsi nel mantenimento del sito, ma da questo non deriveranno automaticamente ritorni di ruolo e di antiche funzioni. Il terremoto aveva, d’altra parte, significato il dissolvimento improvviso delle gerarchie sociali con repentini mutamenti di status e modificazioni psico-sociali, indotte dalla dispersione dei nuclei familiari e dall’allentarsi dei legami di parentela: tutto ciò favorito dal caotico sovrapporsi di disposizioni dovute ad una massiccia quanto contraddittoria presenza (“capillare invasione”, dice il Barone, 1987) delle istituzioni. I disastri, come cartine di tornasole, sembrano, in genere, spingere la popolazione sopravvissuta ad una “chiarezza in precedenza non possibile”, dicono Bevilacqua (1981) e poi la Dufour (1985), facendo nascere una rimotivazione dei soggetti all’interno del sistema con un amplificato “effetto di rimbalzo … per il quale la società verrebbe spinta oltre dai preesistenti livelli di integrazione e di potenzialità di crescita”. Questo in realtà non accadde a Messina dove, dopo una fase di “tensione e drammatizzazione (…), l’emergenza si esaurì senza che fossero stati raggiunti gli obiettivi che sembravano irrinunciabili”; e il tutto sembrò concludersi, nei fatti, con la rilegittimazione dei poteri esistenti.

Gambi (1960) vide i motivi di questo mancato effetto di rimbalzo nel ripopolamento di Messina e di Reggio, avvenuto ad opera “in più saliente misura di famiglie provenienti dai comuni rurali delle aree prossime (fino a un raggio di un centinaio di chilometri) e di mediocri impresari e trafficanti provenienti da regioni settentrionali”, fu insomma un inurbamento “di una società priva di esperienze mercantili e di notevoli risorse finanziarie, e di frequente invischiata in tradizioni rurali”.

Riprendendo questi motivi, la Rochefort (1961), scriverà che la città rinascerà soprattutto in virtù delle attività edilizie. “Dal contado popolazioni (les montagnards) arriveranno in città a rimpiazzare i morti”. La ricostruzione, e la Rochefort (ib.) si riferisce anche a quella dopo il secondo conflitto mondiale, non si verificherà “senza incresciose abitudini, quella in particolare di considerare che basti essere imprenditore nel settore delle costruzioni per pensare a dei buoni affari, anche se non si è sempre protetti dagli speculatori; mentre d’altra parte non si può che constatare una certa mancanza d’iniziativa (d’audace rationelle), e un procedere per caso nell’edificare le nuove strutture urbane”.

E mentre la speranza di ritessere un ruolo centrale e direzionale finisce con l’attenuarsi, il controllo delle risorse cominciò a ridisegnare il profilo delle élites politiche locali, condizionando ed ampliando oltre il dovuto, i rapporti tra economia e politica. Una componente urbana essenzialmente formata da professionisti e burocrati, i nuovi notabili, con un suo sistema di controllo e di selezione, la massoneria, indispensabile per organizzare il consenso della piccola e media borghesia urbana, soprattutto in seguito all’allargamento del suffragio universale.

Il disastro, quindi, nonostante gli auspici, finì col ridimensionare l’antica vocazione mercantile e marinara della borghesia “le cui direttrici”, scrive ancora il Barone (ib.), “si concentrarono da quel momento nelle ghiotte operazioni immobiliari e di compravendita dei suoli fabbricabili connessi al risanamento edilizio: il terremoto fungeva così da volano per lo sviluppo di un ceto affaristico di costruttori e appaltatori”. Lo stesso versante alto del dibattito teorico e della progettualità architettonica che aveva coinvolto anche il Le Corbusier (1956), finiva con l’essere riassorbito dal “profilo basso delle speculazioni economiche e delle rivalità fra notabili locali che avrebbero a lungo caratterizzato il ‘sacco edilizio’ di Messina”. E questa Messina a poco a poco assumerà forma, contemplerà gli effetti del maremoto, del terremoto, gli incendi, lo sciacallaggio, l’arrivo dei primi soccorritori, la nave russa, la partecipazione dei sovrani, la durezza dello stato d’assedio, le prime leggi per l’emergenza, la municipalità che risorge, i drammi di orfani e vedove, le sedute dei civici consessi. I futuristi cantano la volontà prometeica della ricostruzione, quella che viene enfatizzata, spettacolarizzata quasi, dal poeta Jannelli: tendere spasmodicamente verso la ricostruzione… un leggere il passato-presente…attraversato da un fil di ferro…poi l’avvenire che cresce… e il sorridere-mondo etc.etc. (Miligi, ib.). Dal “grumo di sentimenti e di irrazionalità, si tengono però lontani gli altri, gli scienziati alle prese con i problemi delle cause e degli effetti. Il primo pensiero, come si legge nella relazione del piano, avrebbe dovuto essere quello di conservare il mantenimento della vecchia città, conservandone, per quanto possibile, l’impronta generale, ed il ripristino della forma originaria (Campione, ib.).

Invece l’impianto del Borzì, il tecnico della municipalità, sarà solo imposto da necessità, urgenze e ‘particulari’. Un’ icona senza invenzioni e proiezioni. Così la forte, commovente volontà dei superstiti sembrerà esaurirsi nel mantenimento del sito, ma da questo non deriveranno ritorni di ruolo o di antiche funzioni. E’ la cittadinanza che finisce, (La Torre, ib.). I diritti si collassano, restano solo concessioni di favori, mediate da suppliche, intercessioni, minacce: la contrattazione impropria dello scambio sarà la “costituzione materiale” di un patto sociale non sottoscritto ma comunque vigente.

Poi, dopo il terremoto, la guerra. “Sotto la gragnuola aerea si compì lo scempio…”(Longo, 1943).

Anche quest’ultima rottura sembra confermare la tesi di Gambi (Ib. ), poi ripresa dalla Rochefort ( Ib.), sul ripopolamento di Messina, avvenuto ad opera “in più saliente misura di famiglie provenienti dai comuni rurali delle aree prossime … di mediocri impresari e trafficanti provenienti da regioni settentrionali

Resta perciò incompiuto il disegno di città. Emanuele Tuccari (1971), fa discendere “l’inaridirsi” dei “messaggi pervenuti da un passato non lontano”, da un uso del potere “spregiudicato ed obliquo”; un potere che si è andato formando in modo quasi separato dalla città, con logiche di tipo familistico (così presente in alcune aree meridionali) con forti ed esclusivi vincoli di appartenenza e di solidarietà. Si potrebbe forse ricorrere a ragionamenti maturati altrove, come nelle analisi della Becchi, per convenire che, anche alla scala messinese, prevalgono le ragioni del riprodursi di una società urbana come società divisa (Campione, 2003).

Ci si è chiesto fino a che punto quello che poi sarebbe stata la città fosse dipeso dalla pianificazione del Borzì (ib.). Certo non sarebbe corretto procedere per semplificati automatismi. Ma è pur vero che è attraverso un piano regolatore che un architetto si esprime, ricomponendo, in sintesi, le analisi sulla città come essere vivente in continua trasformazione, per garantire, avrebbe potuto dire Piccinato (1988), il funzionamento di una vita urbana, a un tempo, bella, sana, comoda ed economica. E una visione pragmatico-tecnologica non può prescindere dalle specificità del territorio e dalla sua storia. Ma, nella drammaticità dell’avvenimento, a fronte di urgenze certamente ”spaventevoli”, era possibile chiedere di più ad un tecnico comunale, fresco di nomina, che, per l’occasione, si veniva ad improvvisare urbanista?

Il Borzì quasi “ingegnere-igienista” (Fontana, 1981), dalla fiducia quasi “maniacale” nelle regole igienico-sanitarie, un tecnico-pubblico “intermediario” tra amministratori e, in generale, portatori di interessi particolari. La scelta cadrà su di lui proprio per questa organicità con gli orientamenti della risogente borghesia urbana e dei gruppi dirigenti da essa prodotti.

Messina si rifarà al diffuso culte de l’axe, di sapore haussmanniano (Benevolo, 1968; Tentori, 1985), senza però comprenderne appieno tutta la portata. Alla logica haussmanniana si aderì soprattutto sventrando implacabilmente i vecchi quartieri, senza riservare vaste zone a giardini e parchi e senza dare movimento e scenografia alla rete stradale. L’architettura che si applicò, infatti, era subordinata solo a principi freddamente geometrici, mentre è dalla grandiosità delle realizzazioni dell’Haussmann, pur tra luci ed ombre, che si stabilì “l’estetica del rettifilo”, base dei criteri di risanamento e di abbellimento adottati poi dalle maggiori città europee.

Quella degli sventramenti era in realtà diventata procedura diffusa, pur con motivazioni ed esiti diversi. Così, con il disegno di Borzì (ib.) è come se si decretasse per Messina, con i suoi organismi stereotipati e i suoi ornamenti casuali, una sorta di ritiro dell’intelligenza dallo scenario urbano.

Nella prassi delle nuove architetture “gli indirizzi stilistici antichi perdono credibilità” e quelli nuovi non arrivano a sostituirli: la ricostruzione quasi totale non uscirà dai limiti di un disegno decoroso e convenzionale, in un clima culturalmente limitato, che del sapore haussmaniano al quale ci si è riferiti non coglierà che taluni aspetti di superficie. E se nella vecchia descrizione storica era possibile decomporre e giustapporre le varie fasi, adesso si potrà fare riferimento soprattutto a schemi geometrici.

Lo smantellamento, che avviene nelle città dell’Europa dei lumi, non è soltanto distruzione o semplice smantellamento di una barriera fisica, ma sottende l’idea di una crescita indefinita (Roncayolo, 1978). Qui invece si avrà un piano regolare, geometrico, a scacchiera neutra, non gerarchizzata, dal momento che non privilegia alcun punto dello spazio e che, solo in pochi episodi, esprime la volontà di dare un volto preciso alla città.

Nella sostanza sarà il controllo dei gruppi sociali emergenti, con le relative deleghe al pianificatore, che sancirà l’organizzazione della città: appunto per questo le idee che la governano non sono che il riflesso di un sistema d’idee precostituite. Con un disegno che apparterrà ad un no man’s land intellettuale. Resta non risolto il dilemma di come si sia andato risolvendo il fondamentale conflitto tra il desiderio di preservare il passato e la volontà di far fronte alle necessità presenti e a quelle prevedibili. E se questo era vero a Parigi (Hohenberg e Less, 1987), in misura maggiore, anche se a scala diversa, lo era a Messina.

Si può infatti convenire che una città così stremata non poteva che esprimere sparuti difensori delle vestigia del passato. Tutt’al più emersero schiere di rancori e di rivalità, sollecitate dalle procedure della ricostruzione. Forse è possibile dire, come fanno Hohenberg e Less (ib.), che l’ambiente urbano può essere spesso inquinato, violento, spietato o di cattivo gusto; tuttavia è qui che grandi energie e una forte consapevolezza modellano il futuro celebrando a un tempo il passato. Ma è stato così anche a Messina?

La città continuerà infatti ad essere programmata per episodi, senza che quella sorta di decumanus – che peraltro riproporrà lo sviluppo regolare del piano Spadaro (Alibrandi e Salemi, 1988) – conferisca sufficiente unità, ad esempio, per riagganciare la grande maglia al porto, che invece, per il passato, ne aveva dettato e ribadito l’impostazione planimetrica. E allora un piano, come dice Calandra (1956) di una “burocraticità deteriore e di un tecnicismo di bassa qualità”, che si è preoccupato soltanto di ”impostare in modo corretto il problema della rete dei servizi idrico-sanitari e di applicare accuratamente alle strade le prescrizioni tecniche ed igieniche, e di altre cose similmente utili quanto marginali, ma assolutamente incapace di intuire l’opportunità di una gerarchia e di una caratterizzazione funzionale delle strade e delle varie zone urbane?”.

Certo il procedere per ragioni essenzialmente pratiche accentuerà l’assenza di idee focali capaci di dare carattere e fisionomia alla nuova struttura urbana. Addirittura, dirà il Mariani (1986), che la elementarità della impostazione rendeva persino sproporzionata per eccesso la dizione di “piano regolatore”. Di fatto, seguendo i ragionamenti del Fontana (ib.), la città avrebbe potuto avere un carattere estremamente estensivo – con strade larghe giardini e case basse- avrebbe occupato un’estensione doppia della vecchia e così la ricostruzione si sarebbe potuta pianificare in maniera razionale, e si sarebbero “impedite le edificazioni affrettate ed abusive, facilitato lo sgombro delle macerie e l’utilizzo dei materiali ricavabili”.

Ed ancora le riflessioni del 1917 del Giovannoni (1931): “al posto della città … che, simile ad individui viventi, aveva la propria fisionomia, il proprio carattere, la propria profonda ragione materiale ed etnica di esistere, il tracciato delle vie reticolari tutte uguali, la volgarità degli aggruppamenti geometrici, che per la mancanza di ogni ripartizione e di ogni ritmo sono ugualmente privi di rispondenza allo scopo utile e di senso di bellezza, senza alcun adattamento alle condizioni altimetriche e planimetriche naturali (a Messina i rettifili salgono a scala la collina, ovvero intersecano obliquamente la falce – che è l’elemento essenziale della forma del golfo e che ha dato il nome alla città -). Eppure la totale distruzione toglieva ogni vincolo e lasciava il campo libero al pensiero nuovo…ma, per impreparazione profonda si è perduta la migliore battaglia dell’edilizia moderna”.

Senza un consistente tentativo di ridisegnare le raffigurazioni precedenti alla fine l’impianto risulterà in parte ripetitivo, in parte imposto. Per alcuni aspetti può dirsi che la città nuova distruggerà la città antica, anche se il disegno, con la ripetizione della maglia ortogonale, della griglia che ne costituiva l’impianto, consente rimandi al passato.

Una pianta, disegnata sopra il segno del disastro e disegnata da un piano a scacchiera, ma se la scacchiera ha la potenzialità di “tollerare una infinità di variazioni all’interno di alcune precise e semplici regole”, nel progetto del Borzì (ib.) l’organizzazione ortogonale di blocchi edilizi accentuerà soprattutto tessiture regolari ed espansioni lineari, le stesse che avevano caratterizzato la precedente pianificazione dello Spadaro. Questa, a sua volta, in certa misura, riprendeva riferimenti emersi, anche con evidenza, nella storia dello sviluppo urbano, a partire almeno dalle ricostruzioni del Val di Noto (Raymond e Dufour, 1990).

Lo schema, “l’impronta generale”, la “sagoma complessiva”, consentono questi rimandi alla “storia dello sviluppo del tessuto urbano”, ma la vecchia struttura, nel concreto, con i suoi riferimenti, con le stratificazioni, le sovrapposizioni di interventi che la avevano definita, scompaiono.

L’assetto che ne deriverà sarà soprattutto più regolare, più dilatato, meno concentrato rispetto a quello del tessuto più antico “cresciuto essenzialmente su se stesso, con contenute espansioni manifestatesi sempre come incapsulamenti di quartieri sviluppatisi sulla scorta di processi in buona parte spontanei”.

L’utilizzazione della città del passato obbedisce a un pacchetto di regole che poi ne determinano la forma complessiva: gli sventramenti e gli abbattimenti degli edifici, per l’ampliamento e la rettifica delle sedi stradali, le espansioni, in ragione dei minori volumi edificabili e delle previsioni di aumento della popolazione, il risanamento igienico, saranno le coordinate essenziali di una pianificazione che procederà per episodi, tra necessità ed urgenze.

Le linee di derivazione hausmaniana, più che alla riorganizzazione di un tessuto, sembrano appartenere alla logica degli scorrimenti longitudinali. Ne emerge, in conclusione, un tessuto continuo, ma, pur in una maglia dotata di simmetrie strutturali, un sostanziale articolarsi di corpi separati.

La maglia urbana si diffonderà così nell’area pianeggiante, in una espansione per lotti, gli isolati, che hanno si alle spalle un disegno di controllo urbano di questa espansione, ma che si svilupperanno attraverso una serie di processi discontinui. Solo negli esempi migliori, dice il Gregotti (1986), questi lotti (l’isolato messinese), non appaiono come blocco chiuso, realizzano invece “un sistema di interconnessioni, cioè si presentano come qualcosa che finisce non tanto per impacchettare un percorso pubblico, ma in effetti stabiliscono una specie di sistema continuo di rinvii spaziali, di rinvii funzionali” da cui deriverà una nuova connessione urbana, quasi una artificiosità urbana, decontestualizzata dall’ordine geometrico.

Rispettare la storia, la durata, comprendere le logiche di una morfologia ”accumulata”, definita nei tempi, nelle sue costanti e nelle sue dinamiche, non significa, si dirà, cristallizzarne le tendenze, ma, ripartendo dalle rotture sociali ed economiche, deve poterne accelerare, razionalizzare i processi di crescita.

Nelle città dell’Europa dei lumi, osserva Marcel Roncayolo (ib.), si determineranno smantellamenti che non sono soltanto distruzioni o superamenti di barriere fisiche, per la nuova razionalità degli spazi e per le novità tecnologiche e produttive, che danno l’idea di un “urbanesimo aperto”, l’idea di una crescita indefinita.

Il piano a scacchiera, che è considerato di solito come il piano ordinato (“regolare”, geometrico) per eccellenza, caratterizzerebbe le città fondate con una “trama ripetibile pressoché all’infinito”.

E questa capacità di diffusione a scacchiera aggiunge una certa malleabilità, una certa flessibilità nella destinazione del suolo e nella ricostruzione. Così le ricostruzioni potranno essere eseguite all’interno di ciascun blocco, indipendentemente le une dalle altre.

Le città si rinnoveranno, a conferma della “malleabilità” dello schema, senza che il sistema a scacchiera si modifichi nella sostanza. Qui i vecchi tessuti, invece, non reggeranno all’impatto delle nuove esigenze ed esploderanno le contraddizioni tra il tessuto urbano e il nuovo uso funzionale che si dovrebbe attribuire alla città.

E’ vero che il terremoto aveva prodotto una sorta di “pulizia omerica da ogni laccio della storia” … e così si poteva persino credere che da quelle macerie ci si potesse risollevare; dice l’Arcidiacono (1996), “una città da manuale nella prassi perfettamente aderente alla teoria, e insomma venirne fuori una città armata di razionale bellezza come una Minerva dalla testa di Giove”. E aggiungeva: “l’esperienza ha dimostrato il contrario, anzi la caduta delle belle forme perdute ha messo in luce l’incapacità della normativa di piano a conquistarla, reinventandola; sicché Messina è andata via via costruendosi come metafora del progressivo scollamento tra norma e forma e del distacco tra urbanistica ed architettura”.

Così non avrebbero potuto esserci in questa reinvenzione, proprio per il distacco tra urbanistica e architettura riferimenti di maggior respiro, e non solo nel piano, ma anche nel necessario discendere del progetto dal piano. E resteranno fuori dall’orizzonte di una possibile ricomprensione in quest’area i piani della ricostruzione del Val di Noto, quelli della Lisbona del Marquês de Pombal (1755), ed ancora le possibilità di sviluppo offerte dall’asse hausmaniano o dalle pianificazioni di Barcellona del Cerdà (1985), che risolvono, in maniera certamente più significativa, la giunzione del vecchio impianto con l’area di espansione.

E non è possibile dimenticare che il Cerdà (ib.) aveva nel 1867 dato alla stampa quella teoria generale dell’urbanizzazione che segnò una tappa fondamentale nella storia delle idee relative all’ambiente e alla pianificazione; e che in questo testo postula che, se da un lato bisogna “mettersi completamente nelle mani della scienza ed obbedirle ciecamente”, dall’altro bisogna affidarsi “all’arte ed al genio”, ed ancora: “fino a quando l’urbanizzazione non sarà stata studiata analizzata e compresa in modo adeguato … non potrà che aspirare ad essere soltanto conosciuta … (perché si occupa di) un raggruppamento di costruzioni, poste in relazione ed in comunicazione”. Con l’urbanistica, secondo il Cerdà (ib.), la città diventa una “machine a fonctionner (Le Corbusier, ib.)”, secondo un programma di bisogni e di desideri umani e viene vista come uno strumento che permette di concepire un prodotto globale di società; un’urbanistica però che riesca a rispondere “ad una programmazione logica, ad una teleologia della ragione”. Ed è importante ricordare, dice Lopez de Aberasturi (1985), che Cerdà, con capacità profetica, ha definito i principi fondamentali della pianificazione urbanistica moderna, presentando un processo suddivisibile e riassumibile schematicamente in due fasi: analisi dei dati e geografia del luogo, definizione di un programma dei bisogni e delle funzioni, secondo una classificazione razionale, analisi delle scelte fondamentali, espressione morfologica di queste scelte. E perché non ricordare ancora il Giovannoni che, anche se molto tempo dopo, con il suo decalogo, attribuiva al piano contemporaneamente capacità di restituire immagine formale e organizzazione funzionale della struttura urbana: così il piano diveniva elemento ordinatore che regolava “la sistemazione delle infrastrutture, la suddivisione in zone funzionali, la classificazione dei tipi ed il diradamento attraverso il disegno e la prefigurazione dello sviluppo (Di Leo e Lo Curzio, 1985)”.

Invece il piano del Borzì, la “nuova fondazione” di cui non si riesce a cogliere il senso ontologico, scrive l’Aricò (1990), si occupa solo di espansione e, in misura molto limitata, di qualche intervento nel centro storico. Borzì applica questa tecnica di chiara matrice sette-ottocentesca e disegna “sia pure con abile veste redazionale, sul vecchio sito, una grande espansione, ma espansione da dove, da che cosa? Dal non-ente, dal niente, meglio, dal rispetto dei terreni già occupati dai servizi pubblici: un pacchetto di normative e la matematizzazione dei suoli trovava poi nell’isolato…la soluzione ottimale e semplicistica tra interessi privati e nuovo disegno urbano”. Era comunque chiaro, a pensarci con il senso di adesso, che non poteva essere consentito, nella vicenda di questa pianificazione, alcun ingresso al Guidini (1910), che aveva offerto il suo studio , come “modesto e fraterno contributo”, quasi “lo scioglimento di un voto, fortificato in mezzo all’infelice popolazione superstite, percorrendo l’ampia distesa delle macerie desolate”. Il Guidini (ib.) che potremmo considerare, riprendendo le definizioni già citate , un ingegnere-architetto (professionista, cioè, che possiede abilità somma di disegnatore, solida cognizione della storia dell’arte, così da formarsi un gusto estetico sicuro etc. (Novati, 1910), nel suo studio, cerca di conferire all’impianto un senso più complessivo, di immaginare una logica di insieme capace di unificare le parti di un disegno in un “più organico impianto, spazioso e raccordato”, “in una forma adatta alle nuove funzioni”. E così, lì dove il Borzì si muove dettagliando un discorso per parti, il Guidini (ib.) tenta di operare un insieme di scelte integrate, e “concatenate”. Innanzitutto la città e il porto, poi il mare e la città, interrompendo la continuità della palizzata per immettere delle linee di verde verso le strutture di maggior prestigio e le molte preesistenze da recuperare, con nuovo unificante linguaggio visivo, con allineamenti architettonici tra l’interno e la linea esterna. E nell’unità di tracciato, con chiari riferimenti alla pianificazione del Cerdà (ib.), un insieme di linee viarie longitudinali, trasversali e diagonali “che intersecano ciascuna il nuovo quartiere” e che confluiscono in un punto di snodo, in una piazza-collettore che distribuisce i ritmi del movimento e della comunicazione, rinviando ad altri collettori di diverso livello, in una sorta di gerarchia di luoghi di raccordo: in una geometria unificante che, nell’accentuare e nel rendere più ritmata la relazionalità degli spazi, produce i fatti di un costante immagliarsi, addirittura il contrario di quella separatezza che invece finisce per accentuarsi nella scacchiera uniforme e ripetitiva del Borzì.

Ma tant’è, il piano del Guidini o gli altri apporti del dibattito alto non ci sono stati e tutto è accaduto nell’unico modo in cui poteva accadere, e, rifacendoci al Candide, dovremmo aggiungere che è accaduto nel modo migliore possibile. E continua tuttavia ad accadere.

Infatti il piano dell’ing. Borzì che doveva vigere per 25 anni (approvato nel 1911 sarebbe dovuto scadere nel ‘36), è durato almeno fino alla metà degli anni ’70. Se poi si considera che, in fondo, al piano della Tekne (1988), degli anni 70, si è attribuito soltanto il carattere di mero strumento edificatorio e che le successive varianti non hanno visto la luce, bisognerà concludere che il disegno resta ancora, nelle linee essenziali, quello di oltre 90 anni fa, concepito in condizioni di emergenza. Come se l’emergenza continuasse. Ma questa è la storia della città ricostruita (o, meglio, della città ancora da costruire?), della città incompiuta, che è poi la storia dei nostri anni nella loro proiezione spaziale, nei sistemi di relazione più ereditati che costruiti, nell’incapacità della rigida maglia ortogonale di reggere i flussi e il movimento, nell’impossibilità di ricompattare in un unicum urbano, di una qualche qualità, nuove ed antiche marginalità, sempre più disgregate: la storia della società messinese con i valori civici che ha saputo esprimere. Allora ecco Messina, come idealtipo della condizione civile, della politica. Dice ancora La Torre (ib.): resterà il <fiume turchino> di Verga (1999), resteranno i miti di Omero, ma sopravviverà soprattutto “l’instabile equilibrio tra forma politica e ordine naturale”. Con tutti i secolari veicoli di evidenza produttiva di giudizio: le “dande del giudizio” di Kant (1975), appunto, gli schemi dell’intelligibilità, e della conoscenza.

Non deve perciò sorprendere che non si siano attivate “funzioni capaci di propiziare la modernizzazione”, ripeteva Lucio Gambi (Campione, 2007).

Eppure nelle dinamica regionali le strutture, dice il Brunet (1973), sorgono da una determinazione di elementi e sopravvivono malgrado deboli variazioni, fino a che le tensioni provocano rottura. Ora questa regione, lungamente studiata, fin dalle intuizioni del Gambi (1960), che la descrisse come conurbazione evidente e sicura, fondata non sullo slancio industriale, come era avvenuto altrove, ma sulla funzione di giunzione, è diventata un obbiettivo progettuale a vari livelli di programmazione e di intervento.

E il dibattito, all’interno torna a privilegiare, tra le altre « ragioni », quella della sua funzione di cerniera del sistema dello stretto. Si è scritto infatti che, pur riguardando l’area dello stretto un arco di territorio relativamente più vasto, il suo fuoco e ambito di maggior attuazione continua a coincidere con quella che storicamente, ormai da decenni, viene indicata come la « città dello Stretto » e si sostiene che primo scopo del manufatto dovrebbe essere quello di una lievitazione locale di questa (o, in altri termini, del sistema dello stretto). Il punto trainante, su cui operare il massimo dello sforzo per un moderno sviluppo, sarebbe appunto questa conurbazione o, meglio, l’insieme delle conurbazioni dello stretto. E aggiungeva Ludovico Quaroni (1971) che se c’è l’energia per reprimere c’è anche l’energia per costruire, per innalzare, per proteggere; se c’è una cultura che sembra voler degradare l’ambiente fisico naturale ci sarà anche cultura per ricostrire il passaggio umano, descritto dal geografo Merlini (1971). Dirà poi Giuseppe Samonà (1985) che la morfologia del territorio dove l’uomo vive, nasce con lui ed è la sua morfologia, quella che si sposa con l’attività tipologica dell’uomo: <Penso ad una unità morfologica e tipologica riferita a questo territorio che sarà capace di individuare i caratteri intrinseci come limiti per uno sviluppo…che unirà Sicilia e Calabria concependo unitariamente il discorso urbano di Messina, Reggio e Villa S. Giovanni>

Il futuro però sarà, acriticamente svincolato dalla storia, e di valori territoriali anche simbolici, affidato al permanente uso patrimoniale dello stretto, senza ricadute produttive pubbliche, ma solo ‘particulari’?. E allora possono ancora immaginarsi funzioni che si colleghino ai processi di un territorio, letto come storia sedimentata? Si riproporrà, il disegno di una città che si disisola e che potrebbe agganciare la nuova rete di relazioni prodotte dall’<arco etneo>, quello indotto dalla progressiva intermodalità catanese e dalla dirompente novità da Gioia Tauro (Campione, 2003) a Pozzallo e a Malta?

O questo è solo nello zigzagare della intellettualità <esigente> che si crogiuola tra malinconia e impotenza.

Anche la nostalgia del luminoso talento visuale dello stretto non sembra più varcare il grigio delle assuefazioni.

Dobbiamo adesso riferirci all’attuale blocco, “storico”[5], per la lunga convergenza maturata con gli altri poteri, taluni anche professionali, che sono andati via via crescendo, nell’oligopolio degli affari, poi all’altalenante, spesso precario, sbozzolarsi di esiguo ceto produttivo: alienata sarà invece una intellettualità indipendente, certamente di valore, chiaramente dissociata ma di flebile consistenza e/o incidenza.[6]

Poi all’Università che, pur con presenze di conclamato livello, viene descritta come in rapido declino, soprattutto per i quasi costanti processi di riproduzione dei ceti dirigenti (Centorrino, Piccone Stella, 1974): se altrove è difficile che le classi produttive (eccezion fatta per alcune libere e private professioni), riescano a produrre seguiti generazionali, l’università invece assicura permanenze pluri-generazionali, dove spesso accade che il merito resti variabile indipendente, e dove difficilmente riusciranno a giustificarsi, al di là dell’usuale obbedienza massonica, procedure ed azioni di chiara valenza criminogena, in termini relativamente più considerevoli di quanto non succeda nelle altre istituzioni pubbliche.[7]

La chiesa, quindi, solo a volte consapevole della lezione conciliare: quando contorna i poteri così come appaiono, sembra appagarsi in un modo di stanca ritualità, quasi depositaria di disperazione e lamenti, che esorcizza salmodiando, ed accompagnando funzioni di rutilante festosità paganeggiante: eccezion fatta per le solidarietà, il cristianesimo del cuore e/o vissuto in spirito di liberazione, di un non appariscente, anzi volutamente silenzioso, volontariato, che residua nei margini inutilmente verbosi delle opulenze gerarchiche. Come nella lezione di Mazzolari (1992): una chiesa senza popolo? Palese poi sarà l’utilizzo del sacro, come altrove, per il cosolidarsrsi del consenso attorno ai poteri prevalenti.

Infine, paradossalmente, le periferie, che, hanno strutturato in sé, accanto alle tradizionali microcriminalità suburbane, penetrazioni connotate da cultura mafiosa: così sociologi urbani hanno riscontrato quasi l’insorgenza ed il cosolidarsi di situazioni di cittadinanza parallela e alternativa, persino una sorta di welfare autogestito.

In sostanza sono questi quattro luoghi, mai efficacemente configurati e/o cofigurabili solo spazialmente, sostanzialmente disancorati dalle palestre del normale vissuto (veri non-luoghi?), e del continuum urbanizzato, dove il gioco per essere risolto richiederebbe conoscenze (Fatta, 2007), che producono distopie e/o eterotopie, in un urbano che non riesce a specchiarsi nell’incubo del proprio crollo, né nell’utopia del suo proprio contrario.

Distopie dove l’umano è in non cale, dove l’immaginario si involve in un masochismo di massa (Muzzioli, 2007), la forma contemporanea della tragedia: ma “se tutti vengono sacrificati, il sacrificio è inutile”: is generally a narrative…(Jameson, 1994). Ci aiuta Flavia Schiavo (2007) quando si riferisce a ciò che emerge dalle trame dei romanzi, dal racconto verbo-visivo delle storie, dal nessun-luogo (Pasolini avrebbe potuto dire : fai un passo e sei su uno stretto, su un mare di affascinante mitopoiesi); dove tutto, scriverebbe ancora la Schiavo (ib.), è, “ossimoricamente”, vita, percezione, interpretazione, radicamento, appartenenza allo spazio vivente, persistete cosapevolezza di un bello che purtoppo si dissove nel mito ).

Ed eterotopie, dove si mette in crisi l’ordine del discorso, che inquietano, dice Foucault (1997), perché “minano segretamente il linguaggio…, devastano anzitempo le sintassi…che fanno tenere insieme le parole e le cose”. Perché determinano rottura dei “canali di mediazione che fondano la comunicazione. E la vita nella polis (ma <nomina sunt substantia rerum>?) è accettazione, mai iniziativa, ricerca di agire, solo inevitabile assoggettamento per la conservazione del sé residuo: blocchi storici, saperi, chiesa, poteri alternativi di periferie paradossalmente funzionali, tutti insiemi a-spaziali, quasi non luoghi, rispetto ad un asimmetrico urbano altro, a-spazialità che riversa sostanziale tensione torturante su cittadini, dal destino inquieto, liberi dalla verità, e dalla moralità che definisce l’uomo (Patocka, 2008). Potremmo anche noi narrare di cesure e oblio, come, per altri contesti, fa Piero Violante (1995).

In una recente prefazione, Ezio Raimondi, che fu di Gambi, “compagno di discussioni, in una entusiasmante fase di elaborazione culturale”, scriveva dell’avventura di un una geografia che avrebbe, occupandosi del territorio, dovuto introdurre l’analisi degli uomini, in un condiviso rapporto tra natura e cultura, senza schematismi disciplinari, senza le ‘paratie’ di cui parlava Bloch (M.P Guermandi-G.Tonet, 2007).

E invece fumisterie “riparazioniste” che ri-parlano avventurosamente <con la bocca piena di sole e di sassi>, immaginano percorsi più accentuati e più rimunerativi di rinnovato mal-fare, senza“uomini”, per un non “condiviso rapporto tra natura e cultura” (Campione, 2008)..

Così sarà per il ponte? Conciliate, pur in modo problematico, le questioni di sostenibiltà ambientale, il ponte avrebbe potuto avere senso territoriale, proprio perché consolidava ipotesi di nuova epifania della regione dello stretto, quella che ci raccontò Gambi, motivata da forti, antiche ragioni..

Ma adesso, nella sostanziale indifferenza del progettato percorso nord-sud, -che, di fatto bypassa Calabria ulteriore e Sicilia nord-orientale e ne determina una più accentuata periferizzazione e marginalità- non potrebbe apparire <estraneo>, solo straripante sovrastruttura, puro segmento trasportista?

L’<ineludibilità> del ponte, disancorata da probanti apparati concettuali, non finirebbe per degradare verso una sostanziale insignificanza, proprio perché smarrisce -in una oggettivazione di puro, anche se mirabolante, consumo- ipotesi di produzione e/o di riscrittura territoriale?

Dalla “nuova geografia dei luoghi” alla banalità dell’intendenza?

La rinascente liturgia di un pensiero visualizzato, il ponte appunto, sarà violenza spazializzata o ricomposizione di antiche naturali lacerazioni: ma la terra non è anche le sue ferite, al di là delle cicatrici narrate da Ratzel (Campione, 2007)?

Sarà simbolo di un bisogno di oltre, sarà come il girare la “manovella” per Serafino Gubbio operatore (Pirandello, 1973) per costruire possibilità altre, sarà tema collettivo di gruppi di un particulare di inesplicate molteplici significanze, che si vogliono inverare per ragionamenti lontani?

E sarà chiave simbolica con congruità estetica e pertinenza ambientale? E i poteri vaiamente articolati trarrano, così come per i traghettamenti, altre occasioni di smisurato profitto? E le mafie?

Il ponte, consentirà disegni, squadra e compasso alla mano, magari senza compasso della ragione, nuove geografie e per quali committenze?

Avremo cioè più compasso che senso e ragione critica per misurare nuove epifanie spaziali?

O solo segmenti di comunicazione che polarizzeranno improbabili e non definiti spazi di altrove?

In fondo verità o menzogne non ha più importanza distinguer se la nostra vita dipende dall’agire come se si credesse…e ci agisce (il mal-fare?) è in possesso di coercizione terrificante…magari per <auto inganno interno>” (Arendt, 2006).

Ecco: la violenza del mithos, suggeribbe Derrida (2003).

E le mafie? “Saranno occasionali, sollecitate in fase di avanzata esecuzione del programma, quando si propongono ostacoli,.o replicano modelli di massonerie deviate che offrono, con metodologia sicura, forza di intimidazione, in virtù dell’appartenenza allo stesso sottosistema, anche se si disarticolano in una miriade di network in rete?” si chiedpono Lodato e Scarpinato (2008).

O saranno parole che stanno al principio: il Verbo?

Parole che indicano: frecce conficcate nella dura pelle della realtà, e che spesso possono diventare spazi insanabili perché perdiamo l’arte o saggezza per viverci (Sontag, 2008).

Oppure sono solo ricerca di tempo perduto perché la verità è sempre in rapporto essenziale col tempo, si nasconde nelle pieghe della vita, ci commuove, ci sorprende…o ci umilia e ci distrugge (Deleuze, 2001 e Givone, 2005) dentro…dove il mare è il mare. Ancora evento?

 

 

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[1] Ci ci rifà alla teoria delle Catastrofi di Rene Thom. Si veda la sua voce Qualità/quantità e dell’articolo su L’aporia fondatrice delle matematiche dell’Enciclopedia Einaudi.

[2] Le Nouvelle Observateur, n.1812, del 1999: G.Anquetil…Zanzibar, ile ouverte…

[3] Pittore e scultore,ha raccontato persone, paesaggi, storie, miti, dagli anni 50, all’accademia di Firenze, al recente riconoscimento del Bacchelli.

[4] Municipio di Messina, Messina prima e dopo il distastro, 1914, ristampa nel 2007 con nota di G.Molonia, Intilla, Messina

[5] Un blocco in certa misura profetizzato dal Ghersi (le storie non sono tutte contemporanee?), che lo esprime ne La città e la selva, in quella prosa filosofico-letteraria che è tra le più significative del’900, come dirà il Mercadante, e come aveva scritto, negli anni ’80, nel più illuminante saggio che sia apparso sul Ghersi, proprio nella postfazione di quel libro del quale era stato anche curatore.

[6] E qui certamente incidono le coinsideazioni sovra mensionate di Lucio Gambi , di Catherine Rochefort e della <capillare invasione> del Barone, sulla qualità del ripopolamento. Le generazioni successive agli ‘40, pur interamente messinesi, hanno tuttavia in qualche modo considerato Messina come luogo di necessario inurbamento più che come il luogo delle radici e/o delle memorie.

[7] Il rapporto della commissione antimafia, redatto sulla ‘ndrangheta nel 2008, si dice preoccupato della incidenza mafiosa nelle vicende dello Stretto, ed in particolare sulla commistione con i poteri universitari: addirittura esprime orripilanti giudizi sul   Policlinico messinese ( si vedano gli atti parlamentari).