Guido BOSTICCO, Università di Pavia

 

 

   Introduzione

Questa riflessione si articola in base a quattro domande attorno al fenomeno e alla narrazione della pandemia, che nei mesi di febbraio, marzo e aprile 2020 hanno occupato quasi totalmente gli organi di informazione e, di conseguenza, si sono insediati nel dibattito pubblico e politico. Il periodo che analizzeremo è quello che in Italia è stato definito la “Fase 1”, ma lo sguardo dovrà necessariamente essere globale, così come globale è stato il fenomeno. L’approccio che adotteremo attinge dalla geografia culturale, analizzando in prospettiva retorica il complesso discorso che scaturisce dalla rappresentazione cartografica della pandemia.

Evidenzieremo come la rappresentazione grafica del fenomeno possa costruire uno o più modelli interpretativi ad uso del pubblico e come questi modelli a loro volta disegnino una geografia differente, modificando virtualmente i confini tradizionali. In alcuni casi vi sono degli accorpamenti di aree usualmente separate e differenti, ma unificate qui da situazioni simili; in altri casi vi sono nette separazioni fra zone usualmente omogenee o considerate tali. Se ciò può essere normale in molte rappresentazioni cartografiche di analisi geopolitiche, solitamente ad uso di ricercatori ed esperti, in questo caso l’importanza del fenomeno è la sua ampia portata e l’incisività che ne consegue, che contribuisce a ridisegnare l’immaginario collettivo dei confini in un pubblico molto vasto.

 

   1. Come si comporta il virus nello spazio fisico

Cominciamo dal primo interrogativo, che ha a che fare con la fenomenologia della diffusione del coronavirus. Ci chiediamo quindi come il virus si comporti nello spazio fisico.

Dal 31.12.2019 al 3.5.2020 sono stati registrati 3.388.665 casi di contagio da Coronavirus nel mondo dei quali 243.312 si sono trasformati in decessi. Naturalmente i numeri – che sono in continuo aggiornamento – variano a seconda della catalogazione che viene fatta delle patologie e dei motivi di decesso[2].

Anche i casi suddivisi per aree non coincidono esattamente, ma non è questa la sede di discussione rispetto alle disparità dei conteggi. Ciò che qui ci interessa è l’entità del problema, che non cambia nella sostanza. Ecco i casi di contagio, in base alle dichiarazioni dei diversi Paesi, come riportato dal sito dell’ECDC (alla data del 3.5.2020):

Africa              42.778

Asia                541.019

America          1.434.136

Europa            1.361.853

Oceania           8.183

Altri:                 696      (segnalati in Giappone su spostamenti internazionali)

Di questi, i decessi sono così suddivisi:

Africa             1.760

Asia                19.259

America          83.135

Europa            139.031

Oceania           120

Altri                  7          (segnalati in Giappone su spostamenti internazionali)

 

Ciò che ha prima allarmato e poi oberato le strutture sanitarie, che ha stravolto l’agenda politica e che ha impressionato l’opinione pubblica è stata la curva del contagio, e cioè l’impennata che in poco tempo essa ha avuto, in termini numerici e geografici. Come sappiamo, l’Italia è stato il Paese più duramente colpito, in proporzione alla popolazione.

1. Curva del contagio: numeri di casi di Covid-19 nel mondo dal 19.1.2020 al 3.5.2020 (Johns Hopkins).

Il 31 dicembre 2019 si registrano 27 casi di contagio da Coronavirus in Cina. Nei primissimi giorni di gennaio 2020 se ne aggiungono altri 17 e subito dopo altri 15. A metà gennaio il primo caso in Tailandia e il primo in Giappone, poi uno in Corea del Sud e uno a Taiwan. Nel frattempo, a partire dal 19 la Cina supera i 100 casi al giorno e il 22 si registrano i primi 11 morti ufficiali.

Due giorni dopo i casi a Singapore, in Vietnam, in Australia. In Cina non si fermano i morti (altri 150 fino alla fine del mese) e Covid-19 arriva in Europa, con 3 casi in Francia, altrettanti in Germania e con 3 casi anche in Italia, l’ultimo giorno di gennaio.

Febbraio si apre con contagi segnalati in Russia, in Spagna e in Svezia e con i 41 casi di viaggiatori internazionali verso il Giappone. La Cina, intanto, viaggia su medie di 3.000 casi al giorno; solo dalla prima decade di febbraio comincia una lenta discesa dei contagi, e nell’ultima decade il crollo è sensibile, ma al contempo l’Occidente viene invaso dal virus. Ci sono i primi due decessi in Iran, un primo caso di contagio in Israele, siamo al 22 febbraio, e il giorno successivo si registrano i primi due casi di decessi in Italia. Un numero destinato a salire vertiginosamente: 4 morti il 25 febbraio, 6 morti il 2 marzo, 17 il 3 marzo, e nei giorni seguenti 28, 27, 41, 49, 36, 133. E ancora, nella seconda metà del mese: 347 vittime il 17 marzo, 429 il 20 marzo, 839 l’1 aprile. Nel mese di aprile in Italia si contano ogni giorno dai 2.000 ai 4.000 contagi e si oscilla attorno ai 400-500 morti ogni 24 ore. Giorno per giorno il bollettino abitua la popolazione italiana a notizie sempre più tragiche, mentre in altri Paesi la situazione sembra sotto controllo. Ma è un’illusione: negli USA, dagli 823 contagi di metà marzo si arriva a una media di 18.000-20.000 casi al giorno a fine marzo e ai 25.000-35.000 di aprile, con 2.000-3.000 morti quotidiani. Il 26 aprile, il picco tocca la cifra di 48.529 contagi e 2.172 morti[3].

Cifre che si accumulano, si confondono, si mischiano, sulle quali sono stati fatti molti ragionamenti in termini di attendibilità (si ritiene che siano molti di più i casi reali non censiti) e in termini di uso politico. Ogni Stato, ogni regione, ogni città espone quotidianamente i dati relativi al proprio territorio, da circa due mesi. I dati circolano sui giornali, sui social, nelle chat di gruppo.

I numeri da soli, però, se da un lato hanno una forza comunicativa indiscutibile, dall’altro non permettono di comprendere il comportamento nello spazio del virus, che può essere messo in correlazione, per esempio, con i tipi di politiche adottate in emergenza, con le situazioni sociali connesse e valutare così l’efficacia di alcune strategie. L’uso del GIS (Geographic Information System) e delle tecniche di analisi spaziale in ambito sanitario sono ormai una branca fondamentale dell’epidemiologia. Definire in che modo e in quale misura i fattori ambientali interagiscano con le condizioni socio-economiche di una certa area geografica rispetto allo sviluppo e alla diffusione di patologie è l’oggetto di studio dell’epidemiologia spaziale. La tecnologia GIS permette oggi di produrre mappe che incrociano dati di diversa natura, essenzialmente dati ambientali e sanitari, per costruire modelli interpretativi utili per le politiche pubbliche.

Dunque oltre ai numeri occorre ragionare in termini di spazio. Il geografo Michel Lussault, direttore dell’École urbaine de Lyon, tiene da qualche settimana una rubrica video quasi quotidiana, dal titolo Chronique geovirale, all’interno del blog di ricerca dell’École, “Anthropocene 2050”.

In uno dei suoi interventi, Lussault evidenzia due caratteristiche interessanti del Coronavirus, in chiave geopolitica: la iperspazialità e la iperscalarità. Ecco, in sintesi, il suo ragionamento.

Questo virus, pur così microscopico, è stato capace di creare uno sconvolgimento geopolitico globale: ha intaccato le frontiere, il lavoro, il welfare, la sanità, l’economia, la mobilità. Ha paralizzato in un istante tutto il mondo, in quanto sistema interconnesso, per cui un micro-evento locale può generare una reazione globale. La relazione fra spazio ed evento è quindi centrale. Ma il virus ha un’influenza che va ben al di là della sua sfera di azione: travalicando il mondo della biologia, ha attivato una serie di reazioni a catena. Possiamo rappresentare su una carta l’epidemia, sottolinea Lussault, ma comunque non riusciamo a spiegare esattamente ciò che accade, perché la geografia del coronavirus evidenzia due caratteristiche particolari.

La prima è l’iperspazialità: tutti gli operatori spaziali, umani e non umani, i luoghi e tutto ciò che costituisce un particolare contesto fisico di azione (come un sistema urbano per esempio) sono potenzialmente connessi fra loro e sono connessi con gli altri operatori spaziali nel resto del mondo. La iperspazialità ha così permesso la globalizzazione rapida della pandemia, non solo a livello biologico e sanitario.

Ma il coronavirus possiede anche la caratteristica dell’iperscalarità: esso è attivo contemporaneamente in tutti i luoghi e a tutti i livelli. È presente e attivo nelle cellule del corpo umano, nelle città, nelle regioni, negli stati, nel mondo. Così Covid-19, cioè la fenomenologia della diffusione, disegna una geografia dinamica e instabile, in cui tutti gli spazi fisici e logici si trovano contemporaneamente modificati dal virus, spesso radicalmente.

La configurazione iperspaziale e iperscalare della pandemia ha permesso di costruire la mediatizzazione di una “drammaturgia quotidiana”, sono le parole di Lussault, che ne mette in scena la progressione in tempo reale, imminente, contingente, secondo per secondo.

La pandemia ha occupato tutta la comunicazione, soprattutto in termini di numeri e di rappresentazione spaziale (quanto e dove si manifesta il virus), trasformando una crisi sanitaria in una crisi politica. La pandemia produce così anche un’alterazione dell’immagine standard della mondializzazione: il virus diviene il protagonista di un’altra storia possibile, immaginabile, progettabile. È, questo, uno degli argomenti più dibattuti rispetto agli scenari del futuro.

Tuttavia, ciò che ci interessa maggiormente dell’analisi di Lussault è quanto questo insieme di caratteristiche renda il fenomeno capace di causare un’alterazione dell’informazione spaziale: l’epidemia si è trasformata in pochi giorni – lo abbiamo visto – da un fatto anonimo e lontano in un fatto esistenziale, emergenziale, politico, spaziale comunicativo e performativo a un passo da noi. A un passo da chiunque, potremmo dire. In questo contesto, le mappe, così come i diagrammi e i modelli numerici di previsione, accompagnano sempre le informazioni alla base delle decisioni politiche e delle comunicazioni ai cittadini. La drammaturgia, chiosa Lussault, ha trasformato l’epidemia in un cavallo pazzo da domare.

In che cosa consista questa drammaturgia, che si snoda su una rappresentazione continuativa, e quali effetti possa produrre è, in fondo, l’oggetto della nostra riflessione.

Un primo aspetto dell’analisi ci porta oltre i termini epidemiologici e sanitari della diffusione del virus e ci permette di vedere come altre mappe, sovrapposte, rappresentino altri livelli del fenomeno, contemporanei e connessi, e come la modifica di uno di questi livelli implichi la modifica degli altri. La metafora del funzionamento dei circuiti neuronali è qui assai calzante: la plasticità del cervello permette che modifiche ad un certo livello dell’organizzazione influenzino i livelli inferiori, ma la modifica complessiva che si attua, a sua volta, implica una riorganizzazione complessiva, spontanea del sistema intero. Non solo: i sistemi complessi come il cervello umano e come, nella nostra ipotesi, la situazione attuale di crisi, sono caratterizzati da robustezza e ridondanza. In altre parole, i sistemi robusti e ridondanti permettono di ottenere lo stesso risultato (cioè mantenere una certa funzione) anche a fronte di una modifica dell’architettura del sistema stesso: significa cioè che diverse configurazioni del circuito possono continuare a realizzare la stessa funzione. Tale funzione, si dice, è robusta rispetto ai cambiamenti, spesso perché ha un ruolo istruttivo rispetto al sistema, cioè lo piega per far sì che produca comunque quell’attività specifica. Il perché di questo paragone è chiaro: ci troviamo in un sistema così complesso e interconnesso che le scelte che via via vengono assunte per modificarlo, in conseguenza dell’avvento del virus che per primo lo ha modificato, sono influenti non solo su altri livelli specifici, ma sul sistema complessivo. Eppure, potremmo ottenere risultati simili anche con modifiche e interventi diversi, perché questa è la natura del sistema complesso che si auto organizza. Per questo è difficile parlare in termini assoluti di scelte “giuste” o “errate” nel contesto dei piani strategici per assicurare la sopravvivenza in condizioni migliori delle società. E per questo può essere interessante analizzare come le rappresentazioni che compongono il sistema complessivo influenzino il nostro modo di vedere lo spazio, di pensare il tempo e di vivere le relazioni, con la conseguenza (possibile) di modificare il mondo di domani.

 

   2. Come si comporta il virus nello spazio sociale

La relazione fra luogo e spazio, luogo e tempo, luogo e soggetto è fra gli oggetti di studio prediletti dalla geografia culturale. Il soggetto, infatti, riveste di significato sia lo spazio, sia il tempo: le esperienze personali, il portato culturale e sociale, il vissuto e la memoria riconfigurano lo spazio e il tempo nell’orizzonte di significato di ciascun individuo. Questi modi di vedere il mondo, se ci è consentita la semplificazione, si incontrano fra di loro nel contesto sociale e, attraverso un processo dialettico, contribuiscono alla creazione di dati di realtà condivisi, visioni del mondo condivise, spesso convenzionalizzate. In parole povere, la società si evolve per spinte e dinamiche interne contrapposte o convergenti, che sono il risultato dei diversi modi di vedere il mondo, propri dei soggetti. Tuttavia queste visioni del mondo sono a loro volta pesantemente orientate da sistemi culturali come l’educazione, la religione e soprattutto l’informazione.

Eccoci dunque alla seconda domanda, che riguarda il comportamento del virus nel contesto sociale, i suoi movimenti e gli effetti conseguenti, per esempio rispetto alla percezione dei luoghi. Il passaggio successivo sarà considerare come tutto ciò viene rappresentato e narrato e che cosa ciò implica in termini geopolitici. Ma andiamo con ordine.

Il Politecnico di Milano ha costituito un gruppo di lavoro interdisciplinare, con l’obiettivo di elaborare un modello basato sulla teoria dei sistemi dinamici in grado di descrivere i sottosistemi implicati nella crisi attuale e le loro interrelazioni. Gli ambiti toccati dall’avvento del virus, lo abbiamo visto, sono molteplici: la persona, anzitutto nella sua integrità fisica, la sanità e l’assistenza, il welfare, la scuola a tutti i livelli, l’impresa, il commercio, il lavoro, i trasporti, la finanza. In un articolo apparso sul Corriere della Sera del 25 aprile 2020, il Rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, illustra le caratteristiche del modello prodotto dal suo gruppo d lavoro attraverso una interessante analisi del fenomeno, che mette in luce le interconnessioni geopolitiche e sociali che il virus ha fragorosamente infranto. Così scrive Ferruccio Resta: «Questa è una crisi centrata sulla persona e lo è nel modo più doloroso possibile, perché mette in conflitto tutte le dimensioni principali del nostro modo di essere umani: la salute, il bisogno di relazioni e la necessità di essere attori del sistema economico. Ciò introduce interconnessioni inedite tra problemi e perturba drasticamente gli equilibri, pur fragili, su cui si fondavano i nostri sistemi economici e sociali. Fare proposte oggi significa quindi immaginare nuovi equilibri e definire le azioni che ci conducano a essi nel minor tempo possibile e al minor costo economico e sociale. […] La parte difficile è progettare l’insieme organico degli interventi, sapendo che non c’è apertura di fabbriche senza le scuole aperte, senza un sistema di cura degli anziani che regge, senza un sistema di trasporti in grado di portare le persone al lavoro in sicurezza» (Resta, 2020).

Seguendo questo ragionamento, proviamo ad analizzare la situazione in ordine cronologico. Fino alla fine del 2019 vivevamo in un mondo in equilibrio, che presentava una mappa di interdipendenze fra settori e gruppi sociali differenti. Era un equilibrio che implicava costi economici e ambientali molto alti, non dimentichiamo il grande problema del riscaldamento globale, che era al centro del dibattito pubblico mondiale fino a poche settimane fa, e non dimentichiamo la crisi economica sistemica che era in atto. Tuttavia il mondo era in equilibrio e la resa dei conti, per così dire, veniva rimandata a medio termine nei grandi summit internazionali così come nelle prese di posizione di molti governi. La rete di interdipendenze si basava su accordi multilaterali e accordi bilaterali, più o meno stabili. Il coronavirus ha distrutto in poche settimane tutti questi nodi, non limitandosi a colpire questo o quel settore, ma la struttura stessa. L’iperspazialità e l’iperscalarità rendono il fenomeno ancora oggi imprevedibile nei suoi sviluppi futuri. Non tanto (o non solo) il fenomeno epidemiologico e sanitario, per il quale prima o poi troveremo la soluzione, quanto quello sociale e relazionale. Ogni elemento della mappa delle interdipendenze è mutato: se gli asili sono chiusi, non si potrà pensare che i genitori lavorino entrambi fuori casa. Se uno dei due resta a casa, la struttura dell’azienda in cui è impiegato deve modificare gli orari e le modalità operative. Se modifica gli orari, i trasporti dovranno adattarsi di conseguenza, oltre a doversi già adattare ai nuovi criteri di sicurezza sanitaria. E tutto ciò, seppur in un arco di tempo che potremmo pensare come limitato, a sua volta modificherà le abitudini e gli stili di vita delle persone, forse in maniera definitiva. Per questi motivi, sostengono gli studiosi del Politecnico, è necessario ridefinire la mappa delle interdipendenze e capire quali siano i nuovi vincoli, prima di prendere qualsiasi decisione politica. Si tratta, in una parola, di ripensare un nuovo modello di convivenza nello spazio.

E proprio l’esperienza dello spazio – che ci interessa particolarmente in questo articolo – si può definire una esperienza totale, in quanto investe tutti gli aspetti della nostra esistenza, materiali e immateriali. Il corpo, i sensi, il pensiero, le relazioni sociali, l’economia, la politica, la cultura. E tutti questi elementi, ecco dove il modello diventa complesso, sono dinamici e hanno un tratto individuale e uno collettivo. Sono cioè un po’ personali e un po’ condivisi. In aggiunta a ciò, lo spazio in cui viviamo ha una propria estetica spesso frutto di progettazione con scopi politici: si pensi alle città, alla forma delle piazze, ai condomini, si pensi ai mezzi di trasporto, agli uffici, alle scuole. Ogni spazio è progettato per favorire o scoraggiare certi sistemi di relazione e di scambio. Ancora Michel Lassault, nel suo libro Iper-luoghi. La nuova geografia della mondializzazione, sottolinea come la geografia possa essere generata dall’interazione fra le persone che avviene nel tempo, dai comportamenti, dalla gestione degli spazi, dal mettere in comune cose o dal separarle. Tutti comportamenti che, oggi, sembrano possibili anche a distanza, in forme nuove digitali, ma che in realtà non partecipano della compresenza, elemento essenziale dei luoghi e degli iper-luoghi.

Con il termine “iper-luoghi” Lussault definisce proprio una categoria interpretativa di questi fenomeni. In una recente intervista al sociologo Marco Dotti, ha specificato che «in un iper-luogo la geografia è quella delle persone che interagiscono, è la coreografia dei loro modi di fare e di gestire le distanze (tra di loro e con gli altri, tra di loro e con le cose)» (Dotti, 2020). Possiamo quindi pensare che il mondo intero, nei prossimi mesi, assuma le sembianze di un iper-luogo, gestito con accorgimenti speciali nelle relazioni spaziali, fatto di ambienti e situazioni in cui saremo sempre di passaggio, che frequenteremo sulla base dei dati di affluenza e di sicurezza sanitaria, con un occhio alle distanze fra persone e uno alla app di tracciamento, cioè – come è tipico degli iper-luoghi – tenendo sempre in connessione la dimensione locale e quella globale. Sarà forse una condizione temporanea, ma, come cerchiamo di investigare in questo articolo, potrebbe modificare definitivamente il nostro modo di vedere e vivere il mondo, qui inteso come spazio fisico. Se il luogo è inseparabile da ciò che in quel luogo accade, allora il mondo potrebbe diventare un luogo diverso da ciò che è ora, sia nelle situazioni più locali (il luogo è la più piccola unità spaziale complessa di una società, dice Lussault), sia nei contesti globali che determinano le dinamiche socio-politiche della mondializzazione.

L’approccio della geografia culturale può essere utile in questo contesto come lente attraverso cui guardare il fenomeno della pandemia e la sua narrazione. E spingendoci oltre, sulla scia di Gearóid Ó Tuathail, vedremo come le mappe analizzate nel prossimo paragrafo siano evidenti rappresentazioni culturali, se non politiche e ideologiche, cioè siano strumenti di potere. Esse contribuiscono a costruire una immagine complessiva dei rapporti fra i luoghi e gli accadimenti, fra lo spazio fisico e il fenomeno pandemico. Ma non solo: parlano anche dei rapporti dello spazio fisico con le scelte politiche ed economiche, con certi aspetti specifici dell’ambiente naturale, utili per le previsioni, con i nuovi possibili assetti delle relazioni internazionali. Le mappe rappresentano e costruiscono: nel configurare la distribuzione geografica di un certo fenomeno, mettono in luce i luoghi come “campi di attenzione”, ma anche come prodotti sociali.

 

   3. Come viene rappresentato il virus nelle mappe

Di seguito abbiamo raccolto alcune mappe presenti sui più importanti siti istituzionali, di analisi, di ricerca e di informazione internazionali, poiché esse sembrano essere elementi determinanti per il discorso pubblico che le accompagna.

«Le situazioni geopolitiche sono costituite da un intreccio e una molteplicità di fattori spaziali e temporali, nel passato come nel presente, che le rendono dinamiche e soggette a evoluzioni più o meno rapide» (Bettoni e Tamponi, 2012), sottolinea Giuseppe Bettoni nel suo Geopolitica e comunicazione, per cui le mappe online si prestano al continuo aggiornamento, ormai in tempo reale, fungendo da un lato come elemento di raffronto critico e dall’altro come supporto retorico al discorso.

Le mappe costruiscono così una geopolitica popolare, che si insedia nel dibattito pubblico a tutti i livelli, a partire da quello politico esibito, che a sua volta entra nell’agone di discussone dei social network, poi ripresi dai giornali, per superficialità, per comodità o per mere ragioni di marketing e ampliamento dell’uditorio. E così esse finiscono per costituire parte dell’immaginario collettivo.

Queste carte geografiche, la loro stessa moltiplicazione e insistente presenza accanto o attorno o prima di molti discorsi politici, geopolitici e di scenario, resteranno a lungo nella nostra memoria: le mappe saranno le tracce permanenti di questo periodo di pandemia, nel ricordo di ciascuno e nella letteratura popolare, se non anche in quella scientifica. Rileggeremo il fenomeno usando molte di queste carte geografiche, aggiornandole, ricontestualizzandole. In queste settimane, infatti, fioriscono mappe non solo riguardo alla diffusione del virus, cioè non solo mappe epidemiologiche, per così dire, ma anche rappresentazioni geografiche schematiche di altri fenomeni correlati o correlabili con la pandemia. Come abbiamo visto, sono molti i campi connessi: inquinamento atmosferico, economia, finanza, mobilità, impatto dell’industrializzazione. Ma vi sono anche mappe basate sulla geolocalizzazione e quindi incentrate sulla posizione di colui che le consulta, quindi mappe sulla prossimità, sul rischio, sulla probabilità di contagio e così via.

Ancora Bettoni suggerisce che ogni carta geografica porta in sé un duplice aspetto simbolico: uno immediato, visibile, e uno più profondo, da interpretare, ed «è quello dei significati latenti che a essa sottendono, nello specifico è il livello del contenuto. Infatti, la rappresentazione simbolica non viene resa soltanto dal tratto grafico, ma anche e soprattutto dall’uso che di questo ne fa chi produce la carta o commissiona di farla per i propri scopi comunicativi […] Le carte geografiche esprimono una determinata visione del mondo che (attenzione!) è incompleta in quanto espressione della volontà di qualcuno, in quanto rappresentazione soggettiva e parziale del mondo» (Bettoni e Tamponi, 2012). E dunque, ecco una panoramica di alcune mappe che ritroviamo citate, linkate e condivise in molti contesti comunicativi e informativi, nelle ultime settimane.

2. WHO (World Health Organization), agenzia delle Nazioni Unite. Ogni giorno pubblica un report in pdf, che comprende una mappa aggiornata sui numeri settimanali dei contagi. La mappa divide i dati per singoli Stati e li colora in funzione dei numeri assoluti e non relativi (cioè non percentuale di contagi rispetto alla popolazione).

3. CSSE (Center for Systems Science and Engineering) della Johns Hopkins University di Baltimora. Una mappa interattiva e sempre aggiornata della diffusione del coronavirus, con dati statistici sulle singole nazioni. La carta geografica è nera e i simboli grafici di intensità di contagio sono rossi.

4. Dipartimento della Protezione Civile “COVID-19 Italia – Monitoraggio della situazione”, con aggiornamenti quotidiani. Mappa molto simile a quella della Johns Hopkins University, anche per grafica e colori, ma su scala nazionale e regionale.

5. CNA, Channel NewsAsia, broadcast televisivo internazionale, in lingua inglese, basato a Singapore. Sul proprio sito sceglie di utilizzare la grafica simile a Google Maps, con marker sui luoghi ed etichette che riportano i dati numerici.

         

6. TrackCorona è la mappa creata dagli studenti dell’Università di Stanford, dell’Università della Virginia e di Virginia Tech. È un aggregatore di dati da diverse fonti. La home page (immagine a sin.) è divisa in tre sezioni: la mappa, una grafica animata sulla dinamica del contagio, i numerici dati aggiornati. Nella mappa c’è anche una sezione chiamata “travel bans” sui luoghi inaccessibili e una sezione “cases near me”, con geolocalizzazione dell’utente. Tutto il sito si aggiorna ogni 20 minuti.

7. Sul sito della BBC News spicca un lungo articolo dal titolo Coronavirus: A visual guide to the economic impact a firma di Lora Jones, Daniele Palumbo & David Brown. Si tratta di un pezzo di analisi che utilizza sia grafici numerici sia mappe, fra cui alcune dell’ESA (European Space Agency) sulla concentrazione di biossido di azoto nell’aria in alcune zone geografiche, confrontando la situazione di marzo-aprile 2019 con quella dello stesso periodo del 2020.

8. La Public Health England, agenzia del Dipartimento della sanità del Regno Unito, utilizza una mappa aggiornata solo di accompagnamento ai dati numerici, non rappresentativa e non particolarmente allarmante, nella scelta dei colori e della grafica: il servizio che ha scelto di offrire questo sito è la possibilità di scaricare dei tabulati con i dati numerici aggiornati (luogo, data e numero di contagi e decessi).

9. La mappa del Vaccine Centre, London School of Hygiene & Tropical Medicine, permette di visualizzare contemporaneamente i casi di Covid-19 e quelli di SARS del 2003, di H1N1 del 2009 e di Ebola del 2014, evidenziati con colori diversi. Un cursore permette di navigare la mappa nel tempo, mostrando l’evoluzione del contagio.

10. Sul sito della Santé Publique France non vi è alcuna mappa, ma in home page c’è un link visibile al portale Géodes, Géo Données en santé publique, in cui si possono cercare i casi di patologie fra cui ovviamente Covid-19, accertati per aree geografiche, aggiungendo criteri come la fascia di età, i nuovi ricoveri e così via.

11. Il Ministero della Salute del Sud Africa riporta le mappe solo nella parte bassa del sito, dopo molti “scroll” con il mouse. Il tono del sito è molto tranquillizzante così come le mappe, che riportano i dati aggiornati dei controlli effettuati in grande evidenza.

12. The Lancet pubblica un articolo in cui si valuta la preparazione e la vulnerabilità dei Paesi africani rispetto al rischio di importazione di Covid-19. Nell’articolo, di carattere scientifico, si utilizzano diverse mappe dell’Africa, fra cui una in cui il continente è diviso per cluster che condividono lo stesso rischio di importare il virus da specifiche province cinesi. Questa rappresentazione ci fornisce, indirettamente, una mappa delle interdipendenze fra alcuni Paesi africani e certe specifiche province della Cina, nonché, attraverso i colori, anche una mappa delle interdipendenze interne al continente stesso.

13. Un’altra mappa della Johns Hopkins University evidenzia gli aeroporti più a rischio. Si tratta di una mappa basata sul numero di voli e sulla provenienza, ma non prende in esame, per esempio, i tipi di controlli effettuati negli aeroporti di arrivo o le procedure di profilassi adottate a livello locale. Essa, quindi, disegna un andamento del virus costante, non dipendente dalla rimodulazione di pratiche territoriali specifiche, fra cui la libertà di movimento fra le città o all’interno di esse e con quali mezzi questi movimenti avvengano.

Esistono poi mappe che utilizzano algoritmi di Intelligenza Artificiale, basandosi su modelli preesistenti e modificandoli in funzione di analisi dei dati sul virus, per poterne predire l’andamento. Per esempio, il CNR utilizza un algoritmo pensato per misurare le risorse ittiche nei mari e negli oceani e lo ha adattato per Covid-19. Infatti, l’IA è in grado di combinare e connettere in maniera complessa dati ambientali quali la temperatura, le precipitazioni e l’altitudine in una certa area, con altri fattori relativi all’attività umana, come la densità della popolazione o le emissioni di anidride carbonica.

Quest’ultimo dato, infatti, è spesso correlato in maniera diretta alla diffusione del virus, per la conseguente diminuzione delle attività umane all’esterno. Proprio il sito del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano, attraverso il suo portale divulgativo Outreach[4], mette in guardia da queste semplificazioni. L’inquinamento è ovviamente diminuito grazie alle limitazioni dei trasporti, ma spesso questo tipo di mappa è usato (al contrario) per correlare le aree ad alta concentrazione di polveri sottili (PM 2,5 e PM10) con l’aumento dei tassi di mortalità. Una correlazione che non è dimostrabile. Ancora una volta: tutte le concause devono essere analizzate contemporaneamente per avere una spiegazione del fenomeno, dallo stile di vita, all’età della popolazione, alla conformazione geografica, ai tipi di insediamenti industriali etc.

Assai diffuse sono, infine, le mappe in timelapse, pubblicate in forma di video, che mostrano l’evoluzione nel tempo del contagio o di altri dati, come i decessi per coronavirus di persone senza patologie pregresse. Per lo più sono utilizzate dalle testate giornalistiche, come elemento paratestuale degli articoli.

Sono dunque molti i modi di rappresentazione della pandemia e dei fenomeni ad essa correlati. Ciascuno di essi disegna fisicamente uno spazio, nel quale siamo in grado di collocarci, e ne definisce le caratteristiche di sicurezza, di rischio e così via.

«Fin dalla prima infanzia, definiamo noi stessi in rapporto al mondo fisico in cui viviamo elaborando informazioni relative allo spazio»[5], scrive Jerry Brotton nell’introduzione di un suo saggio sulla storia delle mappe. Questa “mappatura cognitiva” è la nostra bussola per gli anni a seguire e rimane il fulcro portante di ogni nostra rappresentazione dello spazio.

 

   4. Come il virus potrà modificare la percezione dei luoghi

Una certa vulgata vuole che la globalizzazione abbia chiuso la questione dei confini, unendo tutto il mondo attraverso reti di interconnessioni transnazionali, grazie ai mercati, alla tecnologia, alla comunicazione. In realtà, proprio in questi ambiti, i confini si sono rivelati assai presenti e determinanti: le politiche commerciali dei Paesi sono molto differenti fra loro, la distribuzione della tecnologia (si pensi anche solo alla connessione internet) varia da paese a Paese, la libertà di espressione e quindi di informazione non ci unisce affatto sotto un unico grande ombrello. Quindi i confini si sono resi evidenti, semmai, con la globalizzazione. Fino a ieri. Oggi la pandemia ha riunito di nuovo tutti in un unico, grande mondo comune, al quale tutti apparteniamo. Ma è davvero così? Anche questa volta c’è il rischio di cadere in un tranello dovuto alla semplificazione.

Le mappe che abbiamo visto sono tutte ben attente a decifrare le differenze fra un Paese e un altro, una regione e un’altra. I conflitti interni ai diversi Stati, in Italia particolarmente vistosi nella dialettica fra Governo centrale e Regioni, dividono il territorio, non lo uniscono. Così come le strategie di salvaguardia prima e di ripartenza poi, che sono diverse da nazione a nazione e spesso anche all’interno dei confini nazionali. Tutte suddivisioni che, paradossalmente, non interessano il virus, cioè il protagonista di questo apparentemente nuovo assetto mondiale.

In ogni caso, è evidente che il concetto di confine si è modificato nella percezione comune. Anzitutto, per ragioni di sicurezza, buona parte della popolazione mondiale è “confinata” nelle proprie case. Gli spostamenti sono possibili solo entro i confini nazionali, se non regionali o comunali. Le frontiere sono praticamente chiuse. Le città stesse sono transennate nei luoghi simbolo della relazione, come i mercati, le stazioni o i locali pubblici, marcando dei microconfini interni. Infine, le mappe che abbiamo analizzato rappresentano i dati sociali, i dati epidemiologici, i numeri e le statistiche in aree divise da confini chiari. E come sottolinea il sociologo Gian Primo Cella «nel linguaggio comune la parola confine (o confini) è sempre usata anche in senso metaforico, ma l’esperienza di confine dei soggetti è spesso ben lontana dal semplice, puro, significato metaforico, e ben influenzata dalla materialità del confine stesso»[6].

Suggestioni alla Raymond Williams, tipiche dei cultural studies, suggeriscono la possibilità che l’esperienza autobiografica possa porsi a fondamento di una geografia individuale, che riconosce nel punto di vista, cioè nello sguardo di ciascuno, l’unità di misura degli spazi. Il paesaggio attorno a noi, ben al di là delle sue sembianze fisiche, diviene quindi la risultante di dinamiche interiori (il nostro sguardo, il nostro vissuto) ed esterne (i media e il loro portato retorico a cui siamo sottoposti). È chiaro quindi che un’esperienza straniante e totalizzante come l’isolamento può modificare le nostre idee di spazio, di luogo, di movimento, di relazione, in una parola, la nostra geografia.

Le mappe producono discorsi e retoriche geografiche che evidenziano rapporti di potere o di interessi, ma spesso hanno anche lo scopo di persuadere il pubblico della correttezza di una certa tesi, che di volta in volta si accompagna alla mappa medesima. In questo momento, il mondo è un luogo inospitale. Questo ci dicono la gran parte delle mappe, senza lasciare la possibilità di una gestione diversa degli spazi e delle relazioni rispetto a quella che la politica, supportata dalla comunità scientifica, ha stabilito per noi. In realtà, esistono teorie differenti su come gestire la pandemia e alcune di esse sono rappresentate anche attraverso le mappe, come abbiamo visto nei casi considerati al precedente paragrafo.

Certo, non tutto è simbolo, non tutto è rappresentazione concettuale. Anzi vi è una concreta relazione fra la fisicità del mondo e la sua rappresentazione grafica e ciò vale anche per la diffusione del virus e per i suoi effetti, primo fra tutti la morte di decine di migliaia di persone. Allo stesso tempo, le scelte grafiche ed estetiche vanno ben oltre la volontà di rappresentare un fenomeno nella sua dislocazione spaziale. Le mappe del virus non sono soltanto immagini del mondo, ma diventano modelli per il mondo, indirizzando lo sguardo e il pensiero verso un certo tipo di rappresentazione che, a sua volta, condizionerà le idee e le scelte politiche che modificheranno quello stesso mondo. Potremmo dire che esse prefigurano il mondo, lo disegnano come dovrebbe essere.

La distinzione netta dei confini nazionali evidenzia, nelle mappe della pandemia, la distinzione fra scelte politiche, strategie e sistemi di valori. E quei confini chiudono lo spazio verso l’esterno e rendono più coeso ciò che c’è all’interno. Non significa che non vi siano scambi, collaborazione e solidarietà fra i Paesi, ma non dobbiamo confondere le interconnessioni con l’assenza di confini o con l’unitarietà reale del mondo. Al contrario, la rappresentazione cartografica della pandemia sembra suggerire di dare maggiore attenzione alle differenze, che nascono dal rapporto fra cultura e luogo, con le loro influenze reciproche.

La Svezia, per esempio, passa da un caso guardato con sospetto a un modello da seguire nella gestione dell’emergenza; ma le differenze con altri Paesi, si dirà, sono sia nel tipo di rapporto che esiste fra cittadini e Stato, sia nelle abitudini e nella gestione del tempo, sia nella distribuzione della popolazione sul territorio. Insomma, siamo diversi. Eppure il nuovo stile di vita, il cosiddetto “new normal”, sembra essere un paradigma che dovrà riguardare tutti, senza troppe sofisticate distinzioni. Il modo di lavorare, di vivere gli spazi, di gestire il tempo libero con i figli, di viaggiare e di fare la spesa cambieranno per tutti.

Oltre a domandarci come la cultura cambi la nostra percezione dello spazio, occorre domandarsi come lo spazio (il nuovo spazio disegnato dal virus) cambierà la nostra cultura. Se ciò avverrà, se saremo in grado di modificare le nostre culture, è perché le vivremo come un processo dinamico e non come un patrimonio statico da preservare. Questa potrà essere una lezione per il futuro, seppure con effetti destabilizzanti prevedibili, poiché cozza contro tutte le politiche nazionaliste, regionaliste, localiste che in larga misura hanno contribuito a creare il concetto stesso di identità, negli ultimi anni, almeno in Occidente.

Un altro aspetto messo in luce dalle mappe e dai discorsi che veicolano è la centralità della responsabilità individuale, che non è più relativizzabile. L’interconnessione fra individui e fra strutture sociali, fra sistemi e sottosistemi disegna un diverso tipo di percezione delle libertà individuali e delle azioni anche a livello locale, sia nella gestione delle relazioni fra individui sia nel rapporto con l’ambiente. Le questioni di giustizia ambientale, infatti, diventano questioni di giustizia sociale.

La nostra esperienza della pandemia è locale, spesso individuale, certamente ridotta, ma l’idea che ne abbiamo è globale. E notiamo subito una strana dissociazione, che configura due geografie differenti, poiché globale (o quasi globale) è il carattere della risposta scientifico-tecnologica alla pandemia, mentre locale è la risposta politica. Queste due geografie ci condizionano in modi diversi ma altrettanto decisivi. Da un lato ci domandiamo come creeremo i nostri nuovi contesti e come spazializzeremo le nostre attività quotidiane, dal viaggiare in treno al fare la spesa; dall’altro ci domandiamo che cosa resterà, per esempio, dell’idea di un Nord Italia forte, efficiente e produttivo con un sistema sanitario di avanguardia, o degli USA come nazione di riferimento, leader mondiale e morale, dopo le débâcle o le assenze che questi due modelli hanno mostrato, ciascuno rispetto alla propria storia.

 

   5. Conclusioni

In queste settimane, lo spazio pubblico è stato occupato da scienziati, politici e addetti alla comunicazione. Essi hanno letteralmente invaso tutti i canali di relazione fra i cittadini, chiusi nelle loro case, e il mondo esterno, raccontandolo, descrivendolo, interpretandolo e regolandone l’uso. Le mappe sono state, a nostro avviso, l’elemento dominante di questo flusso. E dunque proviamo a esporre tre riflessioni conclusive: una sul tempo, una sullo spazio e una sulle relazioni.

Primo, il tempo. Le mappe del contagio sono inizialmente la rappresentazione di aree con grande mobilità di persone e merci, di iperattività commerciale, di progresso, per certi versi. Poi, con il passare del tempo, queste divengono aree spaventose, da cui fuggire o dalle quali stare lontani. Infine divengono aree di cattiva gestione politica e strategica, il luogo degli evidenti errori di valutazione. La mappa, in fondo, è sempre la stessa dall’inizio di marzo 2020. O meglio, le proporzioni del contagio fra le aree geografiche sono in buona parte invariate. Alcuni nuovi focolai sono nati, ma le tendenze iniziali si sono confermate, accentuandosi. Dunque la mappa è uno strumento funzionale al discorso politico, più che una rappresentazione dell’istante (che trasforma i numeri spazializzati in grafica).

Secondo, lo spazio. Quanto è più grande la Lombardia della Francia intera? Quanto l’Europa rispetto all’Africa? I luoghi ad alta densità di contagio sono disegnati con cerchi più grandi, come è normale che sia. Sono in testa agli elenchi, che spesso accompagnano le mappe, hanno i colori più marcati. In questo caso stiamo parlando di persone, di malati, di morti. Quindi il cerchio (o il colore) è un simbolo di densità, di intensità. È uno spazio profondo, per così dire. Più il cerchio è grande più ci sono ambulanze che girano, medici che corrono, ospedali che scoppiano, bare che scarseggiano: più il cerchio è grande più le persone dentro stanno strette. Ancora una volta la rappresentazione grafica ha un portato emotivo immediato. E i Paesi che non forniscono i dati appaiono intonsi sulla mappa, scompaiono quasi. C’è poi la scelta complessiva dei colori (spesso mappe nere con cerchi rossi), del contrasto fra le parti e della deformazione grafica dei cerchi. La mappa è uno strumento di comunicazione, prima ancora che di rappresentazione.

Terzo, le relazioni. L’assenza quasi totale di mappe del virus che non abbiano ben tracciati i confini nazionali, il costante aggiornamento dei dati numerici e la preminenza del discorso scientifico-epidemiologico nel dibattito pubblico sono tre elementi che ci obbligano a ripensare le nostre relazioni con gli altri (individui o nazioni che siano), con l’ambiente naturale e con l’ambiente artificiale, con il virus stesso. La parola chiave è “convivenza”. Una nuova convivenza, forse, ma certamente è strategico che essa sia al centro di ogni ripensamento del sistema. E in questo caso, la mappa della convivenza sarà uno strumento di persuasione, prima ancora che di comunicazione.

 

 

Bibliografia

Bettoni G. e Tamponi I. (2012), Geopolitica e comunicazione. Milano, Franco Angeli.

Boria E. (2012), Carte come armi. Geopolitica, cartografia, comunicazione. Roma, Edizioni Nuova Cultura.

Brotton J. (2015), La storia del mondo in dodici mappe, Milano, Feltrinelli.

Cella G.P. (2006), Tracciare confini. Realtà e metafore della distinzione, Bologna, Il Mulino.

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Dotti M. (2020), “Iper-luoghi: disegnare nuove mappe per i territori del sociale”. In Vita, n. 2 del 5.2.2020, pp. 15-18.

Gilbert M., Pullano G. et alii (2020), “Preparedness and vulnerability of African countries against importations of COVID-19: a modelling study”. In The Lancet 2020; 395: 871–77. Published Online, February 19, 2020 (https://doi.org/10.1016/ S0140-6736(20)30411-6).

Lussault M. (2020), Chronique geovirale. Serie di video, in: “Anthropocene 2050”, blog di ricerca dell’École urbaine de Lyon (https://medium.com/anthropocene2050/chroniques-g%C3%A9o-virales-e144c57db628).

Lussault M. (2020), Iper-luoghi. La nuova geografia della mondializzazione, Milano: Franco Angeli.

Resta F. (2020), “Un insieme di interventi per uscire dalla crisi”. In Corriere della Sera, 25 Aprile, p. 38.

Mappe

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CSSE: https://gisanddata.maps.arcgis.com/apps/opsdashboard/index.html#/bda7594740fd40299423467b48e9ecf6

Dipartimento di Protezione Civile: http://opendatadpc.maps.arcgis.com/apps/opsdashboard/index.html#/b0c68bce2cce478eaac82fe38d4138b1

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Sud Africa: https://sacoronavirus.co.za

The Lancet: https://www.thelancet.com/action/showPdf?pii=S0140-6736%2820%2930411-6

[1] Guido Bosticco insegna scrittura all’Università di Pavia, è co-direttore della Vittorio Dan Segre Foundation.

[2] Queste cifre sono riportate dall’European Centre for Disease Prevention and Control, agenzia dell’Unione Europea (©ECDC. Dati aggiornati al 3.5.2020, ore 10.00 a.m.), mentre le cifre dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono di poco inferiori: 3.272.202 casi di contagio e 230.104 morti (Fonte: Health Emergency Dashboard. Dati aggiornati al 3.5.2020, ore 10.00 a.m.).

[3] ©ECDC. Dati aggiornati al 1.5.2020, ore 10.00 a.m.

[4] https://www.outreach.cnr.it/

[5] Jerry Brotton, La storia del mondo in dodici mappe, 2015; p. 36.

[6] Gian Primo Cella, Tracciare confini. Realtà e metafore della distinzione, 2006; p. 25.