Gianfranco LIZZA, Università La Sapienza
1.Il paradosso delle risorse primarie
Non c’è dubbio. Gran parte dei conflitti che affliggono il nostro pianeta sono causa-effetto della ricchezza di risorse naturali. Sembra un paradosso ma questa disponibilità, soprattutto, nei paesi poveri si traduce in complesse forme di instabilità politica, lotte intestine, conflitti regionali e sub-regionali, privatizzazione della violenza attraverso gruppi armati sostenuti da forze governative o transnazionali che, direttamente od indirettamente, hanno interesse affinché questi conflitti permangano o si concludano nel modo da loro atteso.
Che siano fonti energetiche o risorse minerarie l’analisi della geografia dei conflitti conduce sempre alle stesse conclusioni : quanto più i paesi sono poveri e dipendenti dall’esportazione di risorse primarie tanto più sono esposti a conflittualità dipendenti vuoi da poteri locali ed interessi esterni, vedi le imprese multinazionali, vuoi da lotte tra gruppi etnici o sub-regionali, soprattutto, per effetto di evidenti disparità nella distribuzione del reddito pro-capite. Anche una gestione poco trasparente delle attività di produzione, manifattura e commercio delle risorse, oppure shock esterni per effetto delle variazioni dei prezzi delle materie prime rappresentano cause di conflitti locali o regionali. Ma questi sono solo alcuni dei motivi dominanti perché molti altri, anche di origine derivata, traggono spunto da queste ricchezze che, alla fine, si traducono in una sorta di maledizione( 1).
Ma se quella che viene comunemente chiamata, malattia olandese, cioè lo sviluppo di facili guadagni realizzati attraverso l’esportazione di risorse primarie è geograficamente molto evidente nei paesi dove queste risorse sono ubicate, molto più complessa è l’analisi geopolitica di frizioni, fratture e guerre non dichiarate tra paesi produttori e consumatori di risorse o solo paesi di transito delle stesse. Penso , per esempio, alle risorse energetiche recentemente scoperte nel bacino marino Leviatano dove Israele è passato da importatore ad esportatore di gas cambiando i rapporti di forza energetici tra Europa , Medio Oriente e Russia. Anche i rapporti con il mondo arabo, per effetto di queste recenti scoperte sono cambiati ad eccezione di quello palestinese in Cisgiordania ed a Gaza, dove la pace economica invocata, soprattutto, dagli Stati Uniti, in nome di una presunta reciproca favorevole dipendenza, si scontra con le richieste palestinesi di sovranità ed autodeterminazione che, nello specifico chiedono lo sviluppo del Gaza Marine.
Certo, lo sviluppo economico allontana i conflitti mentre la povertà, l’odio, la recessione economica prolungata, la dipendenza dalle esportazioni di risorse primarie li avvicina. Tuttavia, il caso palestinese è un caso a parte, specifico, dove non è la dipendenza energetica ma lo sviluppo di negoziati che potrebbe favorire l’autonomia, cioè la base di avvio di una pace economica che possa aprire anche ad una futura pace politica. Sta di fatto che i motivi di natura economica contano sempre molto di più di quelli etno-culturali per spiegare i conflitti sia civili che tra Stati. Inoltre, credo che rispetto al passato per effetto dello sviluppo tecnologico, delle informazioni, delle comunicazioni, delle relazioni tra Stati e,
soprattutto, della globalizzazione economica, i paesi più deboli abbiano perso veramente gran parte della loro sovranità, ammesso che ce l’abbiano mai avuta e questo non favorisce lo sviluppo della stabilità politica.
L’acqua, tra le risorse , è il bene primario per eccellenza e registra innumerevoli conflitti nella storia. Golda Meir, che fu Primo Ministro di Israele, interpretò molto efficacemente il ruolo vitale di questa preziosissima risorsa con una frase di poche parole: ” Chi tocca l’acqua tocca il fuoco ! ”. In un periodo di grandi cambiamenti climatici le risorse idriche stanno tornado ad infiammare le relazioni internazionali che, per effetto del consolidamento dei confini, dello sviluppo dei trattati internazionali, accordi e convenzioni avevano relativamente perso di attualità. Ricorrenti i casi di sforamento di diritti, o cicliche rappresentazioni di rivalità, per esempio, tra tutte, il bacino del Nilo che unisce in un puzzle geopolitico Egitto, Sudan, Etiopia, Uganda e Repubblica Democratica del Congo.
Il Trattato sulle acque dell’Indo, invece, nonostante la costante rivalità tra India e Pakistan, sembra tuttora reggere allo scontro dimostrando che quando i rivali sono giganti politici ed economici e non ci sono più margini di trattativa, perché gli interessi contrastanti sono al limite della tensione, le probabilità del ricorso alle armi si riducono drasticamente. Altrove, invece, considerato il flagello dell’inquinamento dei fiumi ad opera dei paesi a monte dei corsi d’acqua, oppure l’incremento di costruzioni di dighe, cateratte, canali o sbarramenti per lo sviluppo agricolo, i rapporti tra Stati limitrofi, poveri o in via di sviluppo, potranno tornare ad acuirsi favorendo la conflittualità. Oltre al Nilo penso, per esempio, al Mekong che attraversa il Laos, il Vietnam, la Cambogia ed in misura minore la Thailandia. La costruzione di dighe da parte di Cina e Laos, entrambi paesi up stream, significherebbe fame e sollevazioni popolari per i paesi a valle con conseguenze catastrofiche.
Più interessante, invece, dal punto di vista geopolitico il bacino del Tigri-Eufrate. Le guerre e le distruzioni in Iraq ed in Siria hanno di fatto lasciato alla Turchia ampi margini di manovra per rafforzare il suo predominio idrico sul sistema dei due fiumi mediante la costruzione di dighe e bacini idrici artificiali sul versante sud orientale del paese, prevalentemente abitato dai curdi. Il che non facilita di certo i negoziati. La resa dei conti avverrà con il consolidamento dei rapporti tra la Russia e la Siria, ed Ankara potrebbe essere costretta a rivedere i suoi piani di consolidamento idrico.
A proposito di commodities, invece, mi sembra molto appropriata la definizione di Collier (2) che definisce il concetto di “ trappola del conflitto. Gli “ imprenditori della violenza” sostiene Collier hanno tutto l’interesse affinché le ferite, i lutti, l’odio e le atrocità continuino a soffiare come un vento distruttivo sui cuori e sulle menti delle popolazioni in lotta anche dopo una prima pacificazione. Infatti, il denaro , il potere, ed anche la mediazione internazionale conferiscono ai gruppi armati, perlopiù rozzi ed ignoranti individui, al soldo di grandi poteri od infarciti di false ideologie, una sorta di legittimazione che tende a perpetuare la violenza, la vendetta, od il rischio di nuovi conflitti, anche dopo che si sia raggiunto un faticoso compromesso pacificatore.
Nell’America Latina, per esempio, l’esportazione di petrolio, rame , ferro , soia ed altre commodities copre il 74% dell’economia latino americana; in Venezuela, Ecuador e Cile tale percentuale sale al 90%. E’ evidente che le oscillazioni dei prezzi del mercato mondiale di queste risorse, nella fattispecie unite alla contrazione della domanda cinese, stanno creando ed hanno già creato le premesse in questi paesi di una situazione di forte instabilità politica interna, oltretutto, fortemente caratterizzata da corruzione, traffico di sostanze stupefacenti e malcontento locale o sub-regionale.
In Africa la geografia dei conflitti è lo specchio della presenza di ricchi giacimenti di risorse primarie. La ricchezza di petrolio, gas, legname, coltan, tantalio, diamanti e soprattutto acqua è la madre, in questo continente, di tutti i conflitti contemporanei in contesti sociali molto complessi e difficili da capire per la forte interconnessione tra tensioni nazionali e locali.
Nella Repubblica Centroafricana e nella Sierra Leone, per esempio, l’estrazione dei diamanti finanzia sia il governo sia le forze di opposizione. Allo stesso modo i proventi dello sfruttamento del legno in Liberia. Nella Repubblica Democratica del Congo i conflitti per il controllo delle miniere di oro, stagno, rame, tungsteno e tantalio vede la presenza di milizie armate, addirittura su delega dello Stato, a causa della sua intrinseca debolezza, proprio per la difesa dei giacimenti. Il petrolio è la fonte di ogni male tra il Sudan, ed il Sud Sudan e così nella Nigeria già contro il Biafra nel Golfo di Guinea.
Ma questa è solo un’immagine generica e sfumata dei conflitti in essere o potenziali per il possesso delle risorse naturali essendo il continente nero parcellizzato in una miriade di gruppi etnici, tribali e clanici tutti protesi alla conquista di porzioni di ricchezza territoriale supportati dalle mire delle imprese multinazionali, dall’inesistenza dello Stato e dalla corruzione dilagante. Milizie armate e terroristi autolegittimati da criminale fervore islamico fanno da sfondo a questo deprimente panorama politico economico. Di certo , i conflitti in Africa sono aumentati in questi ultimi anni perché la lotta per l’accaparramento delle risorse da parte di gruppi locali o regionali si è ulteriormente aggravata in assenza di vere negoziazioni e volontà di pacificazione sia nazionale che internazionale. Per esempio, l’Etiopia è uno Stato coinvolto in molti conflitti regionali per il controllo delle risorse, ed è sede di organismi internazionali. Ebbene riceve finanziamenti ed aiuti politici ed economici sia dagli Stati Uniti che dalla Cina; quest’ultima negli ultimi anni ha realizzato molti investimenti in questo paese.
A settembre 2018 si è svolto a Pechino il Forum of China Africa Cooperation ,alla sua terza grande conferenza internazionale dopo la sua fondazione nell’anno 2000. Il Forum ha messo in evidenza i massicci investimenti cinesi nel continente : 110 miliardi di dollari negli ultimi 10 anni, a cui se ne aggiungeranno altri 60 fino al 2021 per finanziare importazioni e sostenere investimenti da parte di imprese cinesi in Africa. Gli scambi commerciali tra Africa e Cina hanno raggiunto 116 miliardi di dollari e le due bilance commerciali sono quasi in parità. Ora a parte la constatazione del miserevole fallimento delle politiche neocoloniali dell’Europa e, viceversa, del contributo cinese alla crescita economica del continente africano, attraverso infrastrutture, quali ponti, strade ferrovie e sviluppo delle imprese manifatturiere, è evidente che se il fardello del debito africano è aumentato non è per colpa della Cina, ma a causa della caduta dei prezzi delle materie prime che ha ridotto le entrate degli Stati africani. Viene allora da chiedersi, dove sono l’Europa e gli Stati Uniti quando si parla di investimenti in Africa ? Se la Cina attraverso la Belt and Road Initiative, ovvero la cosiddetta- nuova via della seta- sta avvolgendo con il suo programma infrastrutturale l’Asia e l’Africa, che la renderà protagonista nei prossimi decenni a fronte degli interessi dei paesi occidentali, perché trincerarsi dietro lo schermo della presunta trappola del debito, ed al confronto fare molto meno, e parlare solo di immigrazione illegale?
In Medio Oriente e nel continente asiatico la situazione è prevalentemente caratterizzata da conflitti per l’estrazione e l’ esportazione di petrolio e gas naturale, dalle drammatiche vicende in Iraq ed in Siria dove la rivalità tra sunniti e sciiti fa da sfondo a quella tra le grandi potenze che, passando per l’Iran, si spinge fino all’Afghanistan. In questo paese, definito giustamente il cimitero degli imperi, dopo decenni di guerra la sola economia veramente attiva è quella legata al commercio delle sostanze stupefacenti e mentre gli Stati Uniti sembrano ormai rassegnati all’idea di una spartizione di poteri, se non di territorio, tra filo-occidentali ed integralisti, lo scenario è declinato nel paradossale (3). L’Iran sciita nemico dichiarato degli estremisti sunniti li sostiene economicamente per dare fastidio agli americani, come questi fanno in Yemen, Libano e Siria con gli alleati iraniani. Senza contare la Cina che finanzia i talebani per dare fastidio agli americani a seguito della guerra dei dazi scatenata da Donald Trump, nonostante i suoi gravi problemi interni con l’estremismo islamico. Anche la Russia, per ostacolare gli Stati Uniti, finanzia i talebani. Morale, a chi giova tra i mullah afghani fare la pace rinunciando a questo fiume di denaro?
Il Worldwatch Institute nel suo State of the world Report calcola che i conflitti per le risorse primarie coprano almeno il 25% di tutti gli scontri armati. Un caso di scuola è certamente quello che riguardò lo sfruttamento delle risorse di rame di Panguna sull’isola di Bougainville in Papua Nuova Guinea. L’attività di estrazione della multinazionale Rio Tinto Zinc determinò un disastro ecologico unito all’esclusione della popolazione locale dai benefici economici di tale sfruttamento. L’insurrezione armata e la dichiarazione di indipendenza da Papua nuova Guinea determinò un conflitto durato circa dieci anni dal 1988.
Insomma, un ecocidio che causò più di ventimila vittime e che racchiude in se gran parte degli ingredienti tipici dei conflitti per le risorse : una multinazionale che vuole sfruttare una risorsa primaria nonostante il rifiuto della popolazione indigena che vuole continuare a vivere nel suo paradiso tropicale con le sue tradizioni, usi e costumi. Imposizione con la forza dell’attività mineraria che avrebbe portato un futuro di benessere a tutta la popolazione di Bougainville, nonostante i bassi salari ed assenza di equa redistribuzione dei profitti. Disastro ecologico; i terreni e le acque dei fiumi Jaba e Kawerong inquinati dagli acidi generati dall’attività mineraria. La popolazione insorge, guerra civile, violenze; interruzione delle attività estrattive che rappresentavano il 45% delle esportazioni di Papua Nuova Guinea , povertà. Ma la sovranità riconquistata con l’autonomia a caro prezzo trovò un ambiente completamente mutato rispetto al passato perché bisognava bonificare la terra ed i corsi d’acqua. Intanto, buona parte della popolazione indigena aveva abbandonato le proprie case; dunque, ironia della sorte: o riaprire la miniera sostenendo tutti i costi di riattivazione e messa in sicurezza, nonostante il crollo dei prezzi delle materie prime, oppure ripulire tutto e ritornare all’agricoltura.
Ecco dunque in sintesi i meccanismi (4) che sono a base della drammatica relazione tra disponibilità di risorse primarie e conflitti:
– le risorse economiche come mezzo di finanziamento delle ribellioni ;
– come base economica di un progetto secessionista;
– quale motivo di iniqua distribuzione del reddito;
– come fonte di debolezza istituzionale dei governi;
-le risorse economiche procurano denaro facile che riduce il commercio interno ed aumenta il rischio di conflitto civile;
-la disponibilità di risorse economiche aumenta, per effetto di brusche variazioni dei prezzi delle materie prime, il rischio di ricorso alla violenza politica;
– le risorse economiche provocano l’intervento delle corporazioni internazionali che possono favorire conflitti interni armati;
– l’abbondanza di risorse primarie determina l’interruzione o la riduzione delle attività manifatturiere e dei servizi che sono la base del vero sviluppo.
2. Le guerre invisibili
C’è qualcosa di molto più soft dei conflitti tradizionali, sia politici che per le risorse primarie, rispetto a ciò che eravamo abituati ad osservare ed analizzare. Un modus operandi che cambia continuamente strategia ed operatività, luoghi e tempi, filosofia ed aggressività. Mi riferisco ad internet, al grande potere mediatico oggi esponenzialmente moltiplicato dai social, dalla propaganda delle nuove tecniche di comunicazione, che non sono più soltanto i giornali o la televisione o la coltura del sapere. Ciò che intendo è la conquista della mente attraverso le nuove tecnologie informatiche.
In un mondo sempre più complesso e globalizzato, interdipendente, le relazioni politiche, economico-commerciali e finanziarie pur muovendosi su piani diversi si intersecano continuamente in una rete di relazioni che spingono verso soluzioni conflittuali non più basate solo sulla potenza militare che, comunque, continua ad avere il suo ruolo, bensì su tavoli e con modalità diverse.
E’ sufficiente pensare alla potenza delle quotazioni sulle principali borse merci, per esempio, New York, Londra, Chicago, Calcutta, Sydney, Singapore o su quelle delle principali borse valori a New York, Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Londra, Shenzhen per rendersi conto come i destini dell’umanità possano cambiare in poco tempo. Oggi chi ha più informazioni vince, le guerre informatiche sorpassano quelle tradizionali tra spie, le informazioni ed i commenti sui tassi di interesse dei titoli di Stato creano panico e spostano capitali, le fake news disorientano come il verso del lupo vicino ad un branco di pecore. In altre parole la paura corre on line raggiungendo tutti in tempo reale sconquassando quella che è la principale risorsa primaria sia politica che economica, ovvero la stabilità. Noam Chomsky definisce tutti questi poteri, i Padroni dell’Umanità(5). Infatti, seppure quale risultante di numerosi e complessi fattori, la stabilità politica ed economica di un paese è la base dello sviluppo, minare questa base significa voler creare un ordine nuovo a beneficio di nuovi attori ed è da qui che è già cominciata la conquista della mente.
Penso ai luoghi del sapere, non più fisici ma informatici, on line, come Google, Facebook, Amazon, Twitter, YouTube, Telegram, solo per citarne alcuni, dove una cattiva propaganda, in nome di una sorta di missione, può fare molte più vittime di una guerra combattuta fisicamente; penso al potere della grande finanza che può asservire e togliere sovranità ed identità ad intere popolazioni, come acutamente osservava Federico Rampini nel 2013 (6) perché la rete è certamente divulgazione e condivisione ma è, soprattutto, per chi ne detiene la tecnologia, un formidabile centro di potere. Ovvero tanti centri di potere che a volte collaborano a volte si danno battaglia magari non direttamente delegando altri. Insomma è la rete nella rete a seconda dei settori, vuoi politici, vuoi economici o di altro genere tutti protesi ad osservare ed a contrastare le mosse di un virtuale avversario di cui loro stessi fanno parte.
Le famose linee rosse di Barak Obama, più volte superate sia da Bashar Al-Assad che da Putin, non sono più sul territorio ma sul web e proprio per essere tali si spostano di continuo oscillando tra il falso, l’ipotetico, ed il reale. Basti pensare allo scontro tra Arabia Saudita e Qatar a giugno del 2017. Da sempre alleati storici, fino alle accuse pubblicamente mosse da Riyad a Doha di sostenere il terrorismo attraverso Hamas ed Hezbollah, nonché i Fratelli Musulmani, ed aver riconosciuto l’Iran come potenza islamica. Rottura dell’alleanza, embargo terrestre, navale ed aereo contro Doha, insieme ad Egitto, Emirati Arabi Uniti, Barhein. Ma al di là delle accuse mosse attraverso una emittente televisiva non c’è chi non veda un’evidente motivo di destabilizzazione orchestrato sulla base di interessi politici e politico-economici contrastanti. Tra l’altro, sulla realizzazione di un gasdotto Iran-Turchia, Qatar-Turchia o Iran-Iraq-Siria per lo sfruttamento del gas proveniente dal Golfo Persico, avente sullo sfondo sempre il contrasto Russia, Stati Uniti, Israele, ed Iran nel Mediterraneo orientale.
Le cyber-war ormai non si contano più. Le primavere arabe iniziate tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 in alcuni paesi del Medio Oriente e parte del Nord Africa si sono sviluppate on line ed hanno trovato nei social delle giovani generazioni uno strumento iniziale di sollevazione popolare di tutto rispetto per denunciare l’oppressione, la corruzione e le incapacità governative di rispondere alle richieste del popolo. In seguito, i poteri forti cavalcando la stessa tecnologia e con il sostegno mediatico a tutto campo di potenze straniere hanno provocato la caduta di ben quattro capi di Stato. In Tunisia, Zine El-Abidine Ben Ali, in Egitto Hosni Mubarak, in Libia, Mu’ammar Gheddafi, nello Yemen, Ali Abdullah Saleh. Di certo i media occidentali ed i loro alleati in Medio Oriente hanno fatto la differenza. Solo che quello che si supponeva come futuro processo democratico si è rivelato di fatto molto poco realistico con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Da allora, tutto, vero o falso passa on line spingendo i governi, i capi di Stato, i ministri, le agenzie di informazione, gli imprenditori, i privati e la stessa pubblicità a muoversi nello Cyber-spazio come in una sorta di cortile di casa sostenendo a gran voce verità o finte verità che tutti possono udire anche se ne capiscono poco o nulla. Lo scopo è sempre lo stesso, condizionare, ed indurre a concludere secondo gli scopi prefissi; la storia segreta, sempre vergognosa, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti resta nascosta. Certo i governi possono bloccare l’accesso alle piattaforme indesiderate, come per esempio, la Cina attraverso il Golden Shield Project ( detto Great Firewall) o l’Iran nei confronti di Instagram o la Russia contro Telegram, sempre per ragioni di sicurezza nazionale. Tuttavia, seppure a rischio di pesanti pene detentive esiste sempre il modo per tentare di aggirare i blocchi.
Tra questi tentativi vanno sicuramente annoverate le nuove modalità di fare proseliti od organizzare attentati da parte dei terroristi dell’Isis. Sebbene questo fantomatico Stato islamico abbia perso circa la totalità del territorio conquistato in passato, molti dei suoi guerrieri e, soprattutto, la sua utopia, ciò non significa che non sia più vitale. Autorevoli studiosi (7) sostengono, infatti, che il califfato sia divenuto virtuale assumendo nuovi profili, sia per procurarsi denaro attraverso rapimenti, estorsioni, petrolio illegale, vendita di oggetti e monete antiche, sia per fare nuovi proseliti. In tal senso sono estremamente pericolosi i foreign fighters di ritorno , quali sacche marginali e veicolo di nuovi serbatoi di affiliati. Alcuni sono esperti informatici si muovono e pescano nei black funds, oppure attraverso organizzazioni finto benefiche, si incontrano su internet, creano nuovi modelli di business, ricevono denaro, insomma si muovono a loro agio attraverso l’uso di sempre più sofisticate tecnologie. Il loro fine è sempre quello di destabilizzare, il nostro quello di deradicalizzare, diffondendo istruzione, benessere, sostenibilità economica e programmi sanitari, soprattutto, nelle sacche più marginali e povere delle società radicalizzate.
In tal senso, il controllo di tutte le fasi produttive, manifatturiere e commerciali delle risorse primarie in tutti i paesi esportatori riveste un’importanza fondamentale. Eppure troppo spesso ci accorgiamo che all’interno di questa triangolazione continuano a prosperare attività illecite che si muovono in zone d’ombra scarsamente indagate sostenute da interessi occulti che rappresentano l’antitesi, anche di una pace virtuale, tra la disponibilità delle risorse economiche ed i conflitti ad esse connessi.
3. A proposito di migranti illegali
Anche questo argomento che a prima vista sembra estraneo ai conflitti per lo sfruttamento delle risorse primarie e del territorio in realtà rientra, seppure indirettamente, nel tema. Ciò, soprattutto, per effetto delle spinte mediatiche all’emigrazione che trovano come valido motivo la necessità di liberare dalle terre o ridurre su di loro la presenza di gruppi etnici, tribu, o clan rivali, vuoi del potere centrale, vuoi delle imprese nazionali od internazionali che sfruttano le risorse della terra dove i potenziali migranti vivono da generazioni.
L’Africa, in proposito, è tutto un susseguirsi di spinte all’emigrazione illegale, vuoi per effetto delle pressioni mediatiche che si basano sulla disinformazione per liberare i territori da tutte le possibili cause di ostacolo alla realizzazione degli scopi che perseguono le imprese che sfruttano le risorse primarie, vuoi per effetto delle strumentalizzazioni operate da chi ha tutto l’interesse di manipolare la causa umanitaria. Ma ciò non avviene solo in Africa, la storia tra genocidi e pulizia etnica è piena di questi misfatti.
Per esempio, Ghedaffi in Libia ed Omar El Bechir in Sudan si sono a lungo adoperati per spingere flussi di migranti in Europa al fine di ottenere in cambio della loro sospensione il reinserimento dei loro paesi sulla scena internazionale; per sollecitare la revoca delle sanzioni, oppure per ridurre le pressioni politico-internazionali sulle loro dittature. Di certo nell’Africa sub-sahariana, da Est ad Ovest del Sahel, i trafficanti di esseri umani illustrano il viaggio fino all’approdo, per esempio, in Italia come qualcosa di assolutamente normale e vantaggioso, senza contare le immagini di facili guadagni e sviluppo economico prospettate a chi non ha la più pallida idea di dove stia andando (8). Sanno solo che l’Italia è a nord.
Considerato che sedici Stati dell’Africa Occidentale fanno parte della CEDEAO, cioè la Comunità Economica e Sviluppo degli Stati dell’Africa Occidentale, i cittadini dei paesi membri sono liberi di circolare liberamente fino a Gao nel Mali o ad Arlit in Niger. Quest’ultima città, passata negli ultimi cinque anni da 100 mila a 500 mila residenti, è definita dell’emigrazione e dell’uranio. Fonte di contaminazione radioattiva della terra, delle acque, dell’aria e di incurabili malattie, l’uranio richiama gli interessi , oltre che francesi, anche della Germania, del Regno Unito e della Cina. Silenzio politico in cambio di impianti, scuole, ospedali e servizi. Chi non è d’accordo se ne può andare insieme agli altri emigranti degli altri paesi CEDEAO che sono di troppo o creano ostacolo allo sviluppo delle imprese multinazionali che operano per lo sfruttamento delle risorse economiche sui territori.
Da Gao, Agadez, od Arlit i gruppi di emigranti proseguono il loro viaggio della speranza tra mille difficoltà e tormenti con l’aiuto di organizzazioni ed intermediari che lavorano anche per conto di terroristi e criminali tutti collusi con i poteri politici ed economici ed, ovviamente, con le diverse polizie locali e di frontiera. Anche le ONG hanno il loro ruolo. Dopo la guerra del Biafra l’Africa è divenuta il continente più frequentato a tutti i livelli dalle Organizzazioni non Governative. Inizialmente, esse lottavano contro la fame, la povertà, fornivano aiuto sanitario, sempre viste con sospetto dalle imprese multinazionali che sfruttano le risorse energetiche e minerarie. Ma con il tempo queste organizzazioni hanno subito una profonda trasformazione delle priorità e delle tradizioni imposte dai loro fondatori, con l’ingresso nella loro gestione di forze e poteri non africani e con la creazione, al loro interno, di centri finanziari e della comunicazione che rappresentano l’aspetto strategico fondamentale di tutto l’apparato logistico. Ovvio che il criterio umanitario coabita con la necessità di avere la massima risonanza mediatica possibile proprio per sopravvivere alla concorrenza delle altre ONG. Altrettanto ovvia la loro possibile strumentalizzazione, nonché le possibili e rischiose connessioni con intermediari criminali.
Si calcola che nel mondo ci siano più di 100 ONG ma la loro attività umanitaria è da molti osservatori messa in discussione perché concretamente lontana dall’essere tale. Tra l’altro molti direttori e funzionari di agenzie governative nazionali ed internazionali in pensione sono divenuti leader di ONG, come è emerso da uno studio svolto in Gran Bretagna su 77 organizzazioni nel 2010 (9) . Senza contare personalità del calibro di Maddaleine Albright, Henry Kissinger e Colin Powell che sono stati supervisori di grandi ONG. Tra queste la Bangladesh Rural Advancement Committee che conta 120 mila dipendenti, la International Rescue Committee che svolge attività in 40 paesi e 25 città americane e la Open Society Foundations, già Open Society Institute, quale rete di fondazioni internazionali creata da George Soros nel 1993 con filiali in 37 Stati.
Le implicazioni politico-economiche delle ONG, evidentemente, non sono palesi. Vanno distinte le azioni realmente benefiche da quelle che scaturiscono da strategie politiche, altre rivelano attitudini opportuniste per avere una rendita di posizione, altre ancora svolgono la loro attività tra luci ed ombre strumentalizzando la causa umanitaria. Di certo gli aiuti alla cooperazione internazionale nel 2015 hanno toccato i 135 miliardi di dollari ma, secondo una stima della Banca Mondiale del 2013, su dieci dollari consegnati alle istituzioni governative, per esempio in Somalia, sette non sono mai arrivati a destinazione.
Dunque, i flussi migratori rappresentano una industria che coinvolge numerosissimi attori, di cui alcuni in ombra, ed ha una evidente dimensione politica coinvolgendo sia gli Stati di partenza che quelli di arrivo, questi ultimi con un chiaro scopo destabilizzatore. Cioè è una operazione anche strategica i cui fili sono mossi da mani lontane ed invisibili.
4. Conclusioni
Lo sviluppo delle tecnologie ha cambiato il modo di fare le guerre, ed accentua l’importanza della propaganda, delle guerre informatiche, delle comunicazioni on line per conquistare il consenso quale obiettivo prioritario prima di qualunque mossa sul piano concreto. Del resto, seppure attraverso l’uso di strumenti più semplici, anche nel passato è sempre stata questa la strada maestra del successo. Insomma, mosse e contromosse col solo scopo di essere, come comunemente si dice, strategicamente prevedibili ma operativamente imprevedibili.
Questa tecnica è una variabile molto importante dello sviluppo della produzione e commercio internazionale delle commodities, coinvolge una moltitudine di attori fino alle borse merci che, a loro volta a cascata, condizionano le borse valori che rappresentano lo stato di salute dell’industria dei beni e dei servizi. Insomma funziona come la catena alimentare ma rispetto al passato è molto più complessa per effetto del coinvolgimento di una molteplicità di attori ed azioni, reali e virtuali in spazi di manovra sempre più stretti e difficilmente controllabili.
I conflitti per lo sfruttamento delle risorse primarie sono il tassello centrale di questo puzzle molto complesso dove si articola, si compone e si scompone in continuo divenire il senso delle relazioni, della pace e del dissenso tra gli esseri umani del XXI esimo secolo. Molto dovrà cambiare già nel prossimo decennio con lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia che, nel 2050 dovranno soddisfare più dei due terzi dei consumi energetici, con indubbi benefici sul clima e dunque sulla vita. Sicuramente, ciò comporterà un cambiamento radicale dei rapporti con gli attuali grandi produttori di petrolio e gas. Anche la produzione di minerali e materie prime oggi critica potrà subire cambiamenti con l’avvento di nuovi materiali. Tutto ciò indurrebbe a pensare che i tormenti di tante popolazioni in Africa, in America Latina, in Asia “ colpite dalla fortuna” dell’abbondanza di risorse primarie saranno finalmente libere dal giogo dei grandi poteri, politici ed economici, trasversali ed occulti e le stesse grandi potenze saranno meno propense a farsi la guerra nel grande groviglio politico degli amici e dei nemici.
E’ ciò che mi auguro anche se ci credo poco.
Bibliografia
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